Con l’invenzione nel 1454 del vetro ‘cristallo’, attribuita al maestro vetraio Angelo Barovier di Murano, inizia il Rinascimento dell’arte vetraria veneziana che sarà, per una lunga stagione produttiva, connotata da un elevato livello artistico oltre che tecnologico.
I nove contenitori di vetro restaurati in occasione della XVII edizione di Restituzioni ben rappresentano il livello qualitativo intrinseco dei prodotti vetrari usciti dalle fornaci muranesi, in particolare, tra l’ultimo quarto del XV e il primo quarto del XVI secolo. La provenienza di questi reperti archeologici e il sito urbano di Padova ora divenuto sede della Questura dove, dal XIV al XVIII secolo, visse, prosperò e decadde il monastero di Santa Chiara de Cella Nova; si tratta di un monastero clariano di clausura il cui accesso, per molte figlie di patrizi veneti, avveniva per monacazione forzata. Non deve quindi stupire la presenza tra i rifiuti domestici recuperati in una struttura interrata, già utilizzata come ghiacciaia dal monastero, di un’abbondante quantità di oggetti (ceramiche, vetri, ferri e altri ancora) di uso sia collettivo (mensa, cucina, attivita produttive) che personale delle monache.
Dovevano far parte di un servizio in dotazione alla mensa del refettorio i cinque bicchieri di vetro azzurro – quattro ricostruiti nella forma e uno solo per una porzione – sulle cui superfici esterne sono raffigurate, con il sapiente utilizzo di smalti colorati e con l’applicazione di foglie d’oro, scene varie tra cui l’Annunciazione a Maria dell’angelo Gabriele e una ‘danza’ di putti reggenti un festone floreale accompagnato da svolazzi di nastri. A un altro servizio d’uso collettivo doveva appartenere il bicchiere abbellito da un decoro pittorico e da una consistenza plastica del suo corpo cilindrico, che appare nervato da costolature verticali evidenziate dalla doratura. Questo prodotto si identifica con quelli indicati in documenti del 1485 e del 1508 rispettivamente come ≪goti dorati da costa≫ e ≪goti cum coste d’oro≫. Un terzo tipo di bicchiere, di forma più tozza, risulta anch’esso abbellito dall’applicazione della doratura e da un motivo a graticcio a losanghe accompagnato da rosette stilizzate, il tutto dipinto in policromia.
Due differenti coppette potevano invece far parte della dotazione personale delle monache, quelle di nobili origini. La prima in vetro lattimo, cioè bianco opaco, dotata di un piede ad anello e definita nei documenti d’archivio ≪de lactimo schieto≫, cioè priva di decorazione. La seconda, per la precisione una tazza monoansata, è in un vetro azzurro che appare diversamente lavorato: sul fondo e percorso da costolature e sulla parete e plasticato a losanghe che creano in trasparenza un effetto chiaroscuro sull’azzurro intenso della pasta vitrea. La lettura stilistica e la conservazione di queste suppellettili vitree sono state possibili grazie al complesso restauro conservativo iniziato fin dalla fase del rinvenimento nello scavo, con l’intervento diretto dei restauratori che hanno provveduto al loro recupero con opportuni sistemi atti a mantenere inalterate le condizioni fisico-chimiche di giacitura. Successivamente, in laboratorio, sono state svolte con varie metodologie la pulitura, la ricerca degli attacchi, l’incollaggio dei frammenti, la ricostruzione formale con l’integrazione e la protezione finale. Il ritrovamento di numerosi reperti vitrei, già appartenuti al monastero di Santa Chiara di Padova, grazie anche all’intervento di restauro finanziato da Intesa Sanpaolo, ci permette ora di conoscere e ammirare le tecniche e le qualità stilistiche ottenute dai maestri vetrai muranesi, raggiunte in particolare tra gli ultimi decenni del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento.
Francesco Cozza