Diviso in tre ante, il polittico è una grande macchina lignea lunga oltre 3 m che racchiude e sostiene, ma soprattutto incornicia sontuosamente, i rilievi in alabastro. Questi ultimi, sei di uguali dimensioni e il settimo – quello centrale – di misure maggiori, raccontano le fasi salienti della Passione di Cristo: la Cattura, Cristo davanti a Pilato, l’Andata al Calvario, la Crocifissione, la Deposizione dalla croce, Cristo nel sepolcro, la Resurrezione. Affiancano il riquadro centrale le figure dei quattro Evangelisti, ciascuno con il proprio simbolo e un cartiglio con l’incipit – o un versetto iniziale – del proprio Vangelo.
Quest’opera straordinaria realizzata in Inghilterra, quasi certamente a Nottingham (principale centro di lavorazione dell’alabastro a partire dalla metà del Trecento), venne acquisita dal Museo Nazionale fra il 1809 e il 1813 dalla chiesa di San Giovanni a Carbonara, dove era presente ab antiquo.
Secondo le fonti locali la presenza dell’opera in quella chiesa, particolarmente cara alla dinastia degli Angiò Durazzo e luogo di sepoltura di re Ladislao, e legata proprio alla figura del sovrano, che lo avrebbe posseduto e utilizzato come altare da campo. Sebbene la notizia non vada ritenuta fondata, soprattutto confrontando la data di morte di Ladislao, 1414, con quella di esecuzione del polittico, non anteriore alla metà del secolo, resta tuttavia la provenienza stessa dell’opera a costituire un tassello importante nella ricostruzione della fitta mappa di intrecci e di scambi attraverso i quali circolavano e venivano commercializzati i prodotti d’arte nel Medioevo.
Assai apprezzati anche oltre la Manica per il loro effetto sontuoso e per il vivace ritmo narrativo, i polittici in alabastro vennero ampiamente commercializzati in Francia e Spagna, legate all’Inghilterra da antichi e ben consolidati percorsi commerciali marittimi, ma anche nei Paesi Bassi, in Danimarca, nella penisola scandinava, in Italia e sino in Islanda.
Fra gli oltre settanta polittici in alabastro ancora esistenti quello di Napoli si impone per lo straordinario stato conservativo (completo come e di quasi tutte le sue parti) e per la qualità e accuratezza dell’intaglio, che ne fanno uno dei più importanti fra quelli databili nella seconda metà del secolo.
Il restauro ci ha ‘restituito’ proprio la complessità dell’oggetto, con gli originari sistemi di montaggio e il polimaterico aspetto finale. La ricca cornice lignea (che risultava strutturalmente indebolita), l’aggancio fra questa e i rilievi lapidei (effettuato da fili metallici piombati entro apposite cavita scavate nell’alabastro), le pastiglie dorate, i vetri églomisés sono stati tutti sottoposti a interventi di consolidamento e pulitura, riportando alla luce la vivace policromia originale, in buono stato di conservazione.
Paola Giusti