Teseo riceve l’ambasciata di Ippolita regina delle Amazzoni è senz’altro una delle opere più emblematiche di Vittore Carpaccio conservate nelle collezioni pubbliche francesi. Acquistata dai coniugi André come un’opera che rappresenta “una corte d’amore, un soggetto mitologico”, fu Georges Lafenestre a identificarne il vero soggetto nel 1913. L’origine della scena si trova nel canto I della Teseida di Boccaccio, il primo poema epico della letteratura italiana, composto da dodici libri. Il dipinto raffigura l’arrivo di un’ambasciata, guidata da Ippolita, regina delle Amazzoni, a Teseo, re di Atene, volta a concludere un trattato di alleanza che ponga fine ai loro conflitti. La regina si offre di dare sua sorella Emilia in sposa a uno dei due giovani tebani che Teseo ha fatto prigionieri. I due cavalieri, entrambi innamorati di Emilia, si disputeranno la mano della giovane in un duello. Arcita vince, ma muore subito dopo il matrimonio a causa delle ferite riportate.
Sullo sfondo di un paesaggio di colline verdeggianti, la regina Ippolita, che reca sul capo il cimiero reale culminante in un drago, conduce un corteo di sei giovani cavallerizze davanti alla tribuna dove Teseo è in trono, accompagnato da tre giovani servitori. All’estremità sinistra del quadro, uno scriba registra il discorso che la giovane guerriera con l’elmo alla guida del gruppo di donne a cavallo sembra pronunciare. Carpaccio trasforma l’episodio mitologico in una scena cortese fondendo particolari presi in prestito dalla Venezia del XV secolo con invenzioni puramente decorative e fantasiose, come quella che fa di Teseo un vecchio barbuto, solennemente assiso sul trono in un palco ornato di arazzi. Le Amazzoni, da parte loro, sembrano bambole vestite per una festa in costume.
La datazione dell’opera, tra il 1495 e il 1500, è stata oggetto di molti dibattiti: in effetti, questo stile tardogotico internazionale rappresenta un’eccezione nell’opera di Carpaccio. Le sagome allungate suggeriscono una connessione con il ciclo delle Storie di sant’Orsola (Venezia, Gallerie dell’Accademia), dipinto nello stesso periodo. Le figure sembrano pietrificate, i loro movimenti sospesi: questa immobilità contribuisce all’aspetto teatrale dell’insieme. Come osserva Pietro Zampetti, ci si chiede come Carpaccio possa aver dipinto il Sangue di Cristo di Udine e la tavola del Jacquemart-André a distanza di pochi anni. La prima opera appare molto vicina allo stile di Bellini, che a sua volta reinterpreta Antonello da Messina, mentre la seconda è una narrazione cortese, intrisa del gusto cavalleresco del gotico internazionale. Qui Carpaccio sembra ricordare le lezioni di Gentile da Fabriano e di Pisanello, che ha osservato nel Palazzo Ducale di Venezia, allestendo una composizione quasi arcaica. Vittorio Sgarbi, invece, suggerisce una data posteriore, intorno al 1504-1507.
Un restauro realizzato nel 1959 aveva già evidenziato i valori pittorici dell’opera. Un nuovo intervento sulla tavola era tuttavia necessario poiché i vecchi ritocchi e le vernici erano diventati opachi, falsando gravemente l’estetica dell’opera, ed era emerso il forte sospetto di un problema strutturale del supporto, evidenziato da una marcata rete di linee scure verticali nelle venature del legno dolce.