Diana venatrix, o Diana cacciatrice: protesa nella corsa, ritratta nell’istante in cui si appresta a colpire, perfettamente bilanciata sulle gambe, e con il braccio sinistro che si tende ad impugnare l’arco mentre il destro è piegato all’indietro nell’atto di estrarre una freccia dalla faretra. L’eleganza della figura si coglie anche nei dettagli, dal diadema a mezzaluna in argento che arricchisce la capigliatura raccolta a formare uno chignon, all’ovale preciso del volto, con le labbra pronunciate e socchiuse, il naso sottile, i bulbi oculari anch’essi in argento, sui quali è tracciato l’incavo dell’iride. La dea indossa l’exomìs, una corta tunica da caccia stretta sui fianchi, che arriva a lambire le ginocchia lasciando scoperta la spalla e il seno destro; due lembi del mantello, ad accompagnare con realismo il movimento, si aprono svolazzanti sui fianchi. Gli endromìdes, alti calzari in pelle ferina, sono resi con dettaglio quasi miniaturistico.
Ai piedi di Diana si trovano un cane e un cervo su due piccole basi distinte saldate a quella maggiore, caratterizzata da elaborate modanature. Sulla base si legge l’iscrizione: I(ovi) O(ptimo) M(aximo) D(olicheno) T(itus) Aurelius / Seleucus D(onum) D(edit). Ma come mai TitusAureliusSeleucus ha voluto dedicare l’opera a Giove Dolicheno, divinità del pantheon orientale, se la statuetta rappresenta Diana cacciatrice?
Il restauro, e gli studi che l’hanno accompagnato, avevano anche il compito di risolvere questa incongruenza, anzi questo mistero. Documenti inediti hanno permesso di scoprire che i pezzi vennero ritrovati separatamente e che solo in un secondo momento furono restaurati e ricomposti; l’analisi stilistica ha inoltre consentito di collocare la statuetta in un periodo precedente rispetto alla base. Nuove indagini sui punti di appoggio e fissaggio tra la base e la statuetta hanno infine stabilito che la dea era in origine fissata su un supporto diverso. Si può dunque formulare l’ipotesi di un riutilizzo della statuetta in un contesto non originario: sfuggono tuttavia le motivazioni di una simile scelta, a meno di non ritenere che a quest’altezza la dea avesse perso le sue connotazioni tradizionali. Se, come è dato supporre, nella zona del ritrovamento esisteva un luogo di culto, è possibile pensare che un Orientale, magari di passaggio, abbia voluto offrire un dono alla divinità a lui nota, prendendo a prestito gli elementi del culto locale.
Per quanto in origine i pezzi fossero separati, è stato deciso di mantenere l’unità del gruppo per valorizzare l’operazione di reimpiego di un manufatto romano agli albori dell’età successiva, la tarda antichità, quando ha inizio il processo di recupero della «memoria dell’antico».
Sulla superficie della statua si notava una patina di atacamite con chiazze di malachite, mentre tra le pieghe del panneggio si erano addensati prodotti di corrosione e depositi calcareo-terrosi. Prima di procedere all’intervento di restauro sono state eseguite delle lastre radiografiche, utili per la definizione della ricomposizione del gruppo. L’insieme è stato poi smontato e si è proceduto ad una leggera pulitura a bisturi dei singoli pezzi. Sono stati successivamente eseguiti dei lavaggi in acqua distillata con aggiunta di tensioattivo prima di applicare il paraloid al 3% in acetato di butile. Si è poi provveduto a rimontare i pezzi ripristinando l’ordine degli animali ai piedi della dea: nel corso di un precedente restauro infatti erano stati invertiti.
Redazione Restituzioni