Il Mercurio nel 1631 figurava nell’inventario dei beni appartenuti al duca di Savoia Carlo Emanuele I (1562-1630) tra le statue a soggetto venatorio e celebrativo della natura che arredavano la corte d’onore e i giardini della palazzina di caccia del Viboccone, costruita su progetto di Ascanio Vitozzi appena fuori Torino. I marmi facevano parte della prestigiosa collezione di antichità che il duca si era accaparrato tra il 1583 e il 1612, con acquisti da celebri collezioni romane, destinata ad allestire il Palazzo Ducale e i giardini della residenza nella nuova capitale sabauda, insieme al nucleo più antico della raccolta avviata dal padre Emanuele Filiberto (1553-1580).
La collezione di “meraviglie”, vanto della casata e ammirata dai contemporanei, pervenne solo in parte al Regio Museo di Antichità nella sede del Palazzo dei Nobili. Con l’arrivo a Torino nel 1895 di Serafino Ricci, giunto per affiancare il direttore del museo Ernesto Schiaparelli, egittologo e primo soprintendente per l’archeologia piemontese, furono avviate le attività di ammodernamento delle sale e di revisione delle collezioni, in vista dell’Esposizione Generale Italiana che si sarebbe tenuta nel 1898. Aderendo al nuovo paradigma di matrice tedesca che contestava la legittimità delle integrazioni moderne delle opere, colpevoli di rendere incomprensibili i modelli iconografici originali, Ricci eliminò i completamenti di restauro dalla quasi totalità dei marmi Savoia. Anche la statua di Mercurio fu derestaurata e privata della propria identità collezionistica con il distacco delle integrazioni realizzate da una bottega romana attiva nei decenni centrali del Cinquecento, ma anche di parti antiche non riconosciute come tali. La statua, pervenuta al maestro restauratore mutila della testa e di parte degli arti, rappresenta una figura maschile nella sua efebica e acerba virilità, connotata dall’esile muscolatura e dal movimento sinuoso del corpo. Stante sulla gamba sinistra, conservata fino alla caviglia, presenta la destra flessa, spezzata sotto l’articolazione. Il braccio destro è disteso lungo il tronco con la mano in posizione naturale, mentre il sinistro è perduto all’altezza della spalla. Questo tipo di figura dal morbido modellato, dalle proporzioni slanciate e dall’aggraziato movimento dato dalla ponderazione inversa, pur appartenendo a un ampio campionario di divinità ed eroi in cui si fondono elementi formali ecclettici, richiama alcuni modelli di Efebo che dipendono dal tipo dell’Atleta di Stephanos, le cui repliche ebbero particolare fortuna nella corrente classicistica del I secolo d.C.
l restauro interpretativo di raffinata qualità ha completato la statua riproducendo il dio dalla personalità poliedrica, protettore dei viaggi e della comunicazione, guardando per la fisionomia alla ritrattistica di Marco Aurelio giovane, e per la figura alla plastica di età antonina. La peculiarità di riscrittura del soggetto, pur ricca di spunti classici, evidenzia l’aspetto adolescente della divinità in procinto di compiere lo slancio verso l’alto, in un movimento privo di sforzo muscolare, il cui spunto iconografico potrebbe essere stato suggerito dalle elaborazioni manieriste del Mercurio volante, piuttosto che dalla statuaria del mondo classico dove tale modello è inconsueto.
Il restauro ha consentito la ricomposizione della statua nelle fattezze rinascimentali grazie a un programma di studio dei marmi Savoia, avviato dal 2008, che ha permesso di riconoscere pezzi della collezione che si ritenevano scomparsi, avvalendosi anche di foto storiche dell’allestimento del museo.
La restituzione della statua nelle fattezze in cui era pervenuta nella collezione ducale è stata possibile grazie al reperimento nei depositi del Museo di Antichità di quasi tutte le parti che la componevano. Il restauro è stato particolarmente complesso nelle fasi di riposizionamento degli elementi. La statica è ora garantita dall’aggiunta di un supporto retrostante in acciaio, eventualmente amovibile.