Destinata a decorare l’antica chiesa di Sant’Andrea di Ancillate, presso Maggianico di Lecco, l’opera è costituita da tre tavole riferite all’ambito di Gaudenzio Ferrari ed è ora conservata nella stessa chiesa, che è stata completamente ricostruita nei primi decenni del Seicento e, precisamente, nella cappella intitolata ad Antonio abate. Protagonista del trittico è infatti il santo, posto in posizione frontale e attorniato a sinistra da sant’Ambrogio e a destra da san Girolamo.
Antonio è qui raffigurato con il mantello dell’eremita e il bastone a T corredato dalla consueta campanella, allusivi della dimensione ascetica. Nella costruzione dell’immagine, egli svolge la funzione di mediare le due fondamentali componenti della cultura cristiana, rappresentate dagli altri due santi. Da una parte Ambrogio, sontuosamente avvolto negli abiti vescovili, fornito delle insegne del potere ecclesiastico (mitra, pastorale, piviale), si fa portavoce di una Chiesa strutturata in ordine gerarchico. Dall’altra è invece Girolamo, col volto fissato su un libro aperto, posto a simboleggiare la dimensione intellettuale e la rielaborazione dottrinale che spetta all’esegeta delle Sacre Scritture.
Fin dalla ridipintura seicentesca, l’opera ha conosciuto una storia conservativa travagliata, percorsa da non poche difficoltà sul piano attribuzionistico, critico e interpretativo.
Per l’opera, infatti, sono stati ipotizzati i nomi di vari artisti, tutti comunque riconducibili alla laboriosissima bottega milanese di Gaudenzio Ferrari. In particolare si è parlato di Giovenone, Bernardino Lanino e Giulio Cesare Luini, in una cronologia compresa fra il 1540 e il 1550. La critica si è quindi stabilizzata sull’idea di un artista che, rimasto orfano della bottega del maestro, sarebbe stato costretto a spingersi in provincia, nel lecchese: candidato ideale per questo identikit è Giovan Battista della Cerva, attestato in zona nel 1548; l’ipotesi che sarebbe peraltro avvalorata da testimonianze documentarie e che certo merita futuri approfondimenti.
L’opera ha subìto precoci danneggiamenti materiali: pesanti le ridipinture antiche, così come gli interventi ottocenteschi. Al restauro del 1832 risale infatti la decurtazione laterale che confina le figure in uno spazio senza respiro, davvero troppo angusto se si considera la monumentalità che le distingue.
Nel 1872 la pittura fu inoltre trasferita dall’originale supporto su tavola a quello attuale su tela: operazione altrettanto carica di conseguenze negative. Il trasporto, infatti, ha completamente privato i dipinti della preparazione originale, causando un deperimento generale dello stato del colore. Solo con l’ultimo restauro l’opera ha conosciuto un parziale recupero, ottenuto con interventi molto graduali, anche di carattere mimetico. E’ stato in questo modo raggiunto uno stato di stabilità, se pure fortemente compromesso.
Redazione Restituzioni