Una monumentalità quasi statuaria connota la Santa Giustina del Museo Bagatti Valsecchi di Milano, attenuata dall’espressione di raccolta serenità impressa nel volto della santa.
Ritratta a figura intera, Giustina si staglia sullo sfondo di un cielo blu scuro addensato di nuvole, reggendo con la mano sinistra un libro finemente rilegato e con la destra la palma del martirio, a sua volta richiamato dalla spada che le trafigge il petto. Il dolore rimane invisibile, stoicamente sopportato e anzi sublimato con la forza della fede: nessun elemento propriamente drammatico turba la composta dignità che contraddistingue la martire.
Giustina si offre allo spettatore avvolta in un manto rosa pesca, annodato alla maniera antica; la gamba destra appena piegata alleggerisce il cadere verticale della lunga veste verde oliva, che lascia appena scoperti i piedi. Nel complesso, a conferire ulteriore dignità alla figura della santa, è il dettaglio dell’elaborata acconciatura, arricchita dalla preziosa fila di perle e dal diadema che incornicia il perfetto ovale del volto.
Integrando quanto già dice l’immagine, un’iscrizione posta alla base del piano d’appoggio specifica l’identità della santa, in un primo momento scritta in latino (AGVSTINA) e mutata poi in GIVSTINA DE’ BOROMEIS.
Il dipinto ha conosciuto una vicenda critica piuttosto complessa e appassionante, concentrata soprattutto sulla questione attributiva e cronologica. Documentata nella collezione Bagatti Valsecchi almeno dal 1882, la Santa Giustina è stata inizialmente assegnata ad Alvise Vivarini e scambiata con una santa Cecilia. Tuttavia, se per l’identità della santa è stata fatta rapidamente giustizia, più problematico si è rivelato il discorso attributivo, oscillante fra i nomi di Alvise Vivarini, Andrea Mantegna e Giovanni Bellini. La critica, dopo essersi quasi unanimemente orientata su quest’ultimo, si è focalizzata sulla questione cronologica.
Sulla base di alcuni riscontri documentari, la tavola è stata ricondotta alla committenza milanese della famiglia Borromeo e datata intorno al 1470, posticipandola di una decina d’anni rispetto alla proposta iniziale che la vedeva come un’opera giovanile del 1460 e in anticipo rispetto a chi, ravvisando l’influenza di Antonello da Messina, la collocava intorno agli anni Ottanta.
Il dipinto è stato oggetto di un restauro piuttosto impegnativo, che ha riguardato il supporto ligneo e la parte pittorica. Lo spessore originale della tavola, infatti, era stato assottigliato per consentire l’applicazione a tergo di regoli scorrevoli (parchettatura). Tale riduzione ha causato fenditure, microsollevamenti e cadute di colore. Si è pertanto resa necessaria la rimozione della parchettatura e l’applicazione di un nuovo sistema di sostegno.
Per la parte pittorica, invece, sono stati evidenziati interventi sovrapposti di restauro e una stesura non omogenea di vernice; la superficie appariva peraltro fortemente maculata e striata di un colore bruno, a causa di una patinatura stesa in modo poco accurato, solo nelle zone più chiare dell’opera. E’ stata così necessaria la rimozione di tale patinatura, lasciando però inalterati vernice e restauri sottostanti, troppo legati allo strato pittorico originario per essere rimossi. Si è quindi preferita una pulitura limitata, in grado comunque di restituire, nel pieno rispetto della storia conservativa dell’opera, una stesura più compatta e luminosa.
Redazione Restituzioni