Il San Nicola di Mira rappresenta una significativa testimonianza della pittura di fine Quattrocento, ancora influenzata dal gusto tardogotico presente in Calabria, regione a quell’epoca strettamente connessa al vasto circuito della cultura artistica napoletana, sensibile alle novità e ricca di spunti internazionali, con palesi e profondi influssi catalani. Il primo riferimento documentario risale al 1578, quando papa Gregorio XIII proclama l’altare della cappella di San Nicola “altare privilegiato perpetuo”.
Nella Relatio ad limina del 1656 il vescovo monsignor Teodoro Fantoni definisce l’opera “antica, dipinta su tavola e bellissima”: “imagine antiqua, in tabula depicta, satis perpulchra”; nel 1680 dona alla cappella una lampada d’argento, che doveva ardere giorno e notte davanti alla santa immagine: “lampades unam argenteam ei donavi, ut perpetuis futuris temporibus ante illam sanctissimam et antiquam imaginem ardeat, tam de die, quam de nocte”.
Nel 1925 Paolo Orsi considera il dipinto “un buonissimo lavoro italiano, direi di scuola settentrionale, del Quattrocento”, e nel 1933 Alfonso Frangipane esalta le qualità decorative e cromatiche dell’opera, “condotta con evidente reminiscenza di altre tavole del Santo di Bari, marchigiane e venete, ma specialmente sotto l’influenza dell’arte spagnola e catalana della seconda metà del sec. XV”, segnalando, altresì, un precario stato di conservazione, perché “in alcuni punti male ritoccato” e soprattutto per “una lesione profonda dall’alto al basso”. I riferimenti all’arte catalana sono sottolineati anche da Giovanni Carandente, il quale, benché rimarchi il linguaggio “ingenuo, ritardatario e goticheggiante” del pittore, ne rileva le manifeste evidenze di contatti catalani, con rimandi alle opere di Pau Vergós, come il Retablo de San Esteban di Granollers, ma anche alla pittura marchigiana, in particolare Antonio da Fabriano, tutti influssi sicuramente filtrati attraverso l’esperienza partenopea, ove si confrontarono nel XV secolo grandi personalità italiane ed europee, fiamminghe, valenciane e catalane, che suggestionarono fortemente l’ambiente artistico meridionale.
Ulteriori collegamenti di estrazione catalana vengono individuati dalla Di Dario, per esempio “le fiancate del trono decorate a girandole come in una escalera spagnola quale quella della Diputación di Barcellona”, ma anche la novità di “un forte sentore di avvenimenti già colantoniano-antonelleschi: e la fissità iconica del santo sembra riecheggiare da presso gli ‘idoli torniti e bruni’ del primo Antonello”, una ricca e composita cultura che l’ignoto artista può aver assorbito nel multiforme ambiente napoletano.
La struttura compositiva segue l’iconografia tradizionale: il santo è seduto sul trono, con paramento pontificale rosso decorato da rose d’oro e pallio bianco con croci nere, due angeli dalle lunghe ali reggono sul suo capo la mitra ricoperta di gemme. Il fondo dorato è un prezioso tessuto damascato con motivi floreali, mentre sulla cornice trilobata e cuspidata si sviluppa un ricco ornamento a rilievo con tralci dorati, foglie e fiori.
Il dipinto fu restaurato nel 1963 presso il Laboratorio della Soprintendenza di Napoli, dove si procedette, a causa del pessimo stato di conservazione, all’applicazione di un nuovo supporto ligneo, un’operazione invasiva ma necessaria per scongiurarne la totale perdita.
L’attuale restauro, realizzato grazie all’impegno di Intesa Sanpaolo, ha consentito di restituire all’opera la sua stabilità e lo splendore dei suoi luminosi colori, permettendo di riscoprirne appieno la raffinata esecuzione e stimolando gli studi sull’ignoto pittore e sulle relazioni internazionali che caratterizzarono la temperie artistica di quell’epoca.