Il Ritratto di Filippo Neri vivente, o meglio Filippo Neri con il grembiule, si conserva attualmente nella procuratoria della chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini; dal primo Settecento è documentata nella sala della Lavanda dell’antico Ospedale della Santissima Trinità dei Pellegrini attiguo alla chiesa, parzialmente demolito nel 1939-1940. Pur non essendo nota la collocazione originaria, l’opera appare inscindibilmente collegata alla presenza di san Filippo Neri, fondatore della più celebre fra le pie istituzioni romane votate alle attività assistenziali e caritative, specialmente rivolta alle cure dei pellegrini che giungevano nella Città Santa in occasione dei gremiti giubilei, a partire da quello indetto nel 1550. L’intervento di restauro appena concluso ha restituito all’opera, oggi purtroppo decontestualizzata e poco accessibile, l’integrità da tempo perduta per mancanza di specifici interventi manutentivi. Le condizioni conservative di estrema mediocrità non rendevano giustizia al dipinto, importante sotto il profilo storico oltre che come documento artistico, essendo la più antica raffigurazione del Neri (1515- 1595), rappresentato nella pratica sacramentale ed evangelica del soccorso a indigenti e ammalati secondo un’iconografia che lo descrive a figura stante col grembiule di tessuto rustico indossato sull’abito oratoriano completato dalla berretta, così in seguito copiosamente riprodotta a stampa e in pittura.
Il dipinto è realizzato su un supporto ligneo costituito da tre assi di pioppo assemblate verticalmente e incollate tra loro senza ausilio di cavicchi in legno. Sul tavolato – in origine forse di formato rettangolare – resecato e centinato nel corso degli allestimenti successivi dell’opera, sono presenti cinque traverse di cui due originali in legno di pioppo, fissate con chiodi in legno dal davanti, e altre tre sempre in legno di pioppo riferibili a un intervento successivo alla realizzazione della tavola. La riflettografia infrarossa (IR) ha posto in luce il disegno soggiacente, in forma di tracciato sottile le cui linee si identificano nitidamente in corrispondenza degli incarnati e delle campiture più chiare, con tratti veloci e insistiti, tali da impostare in modo piuttosto sommario le linee principali della figura. La pittura a olio, fondata su pochi pigmenti composti da terre, nero di carbone, bianco di piombo e parco utilizzo del cinabro, è stata impostata sul tavolato senza preparazione, stesa per campiture sottili non senza modifiche rispetto allo schizzo preliminare.
La teca che racchiude oggi la pala è stata probabilmente costruita, in vista del suo spostamento nella procuratoria, con alcune porzioni di una precedente custodia a sportelli in vetro. Essa reca sulla base il titulus tracciato a pennello che riprende quasi testualmente la dedica riportata su una tavoletta posta anticamente vicino al Ritratto, vista e segnalata dal padre oratoriano Giacomo Laderchi nel 1730. La sala della Lavanda fu realizzata all’interno dell’Ospedale tra il 1650 e il 1675. In questo luogo l’opera venne accolta per essere ammirata da sodali e visitatori del complesso e qui fu vista e descritta nel 1727 dal visitatore apostolico entro un’articolata struttura protetta da sportelli in vetro, dove venne posta dopo un documentato restauro del 1720 che testimonia la cura dei confratelli di Filippo Neri nel tramandare nel tempo la sua vera effigie.
La figura bonaria del fondatore rivela che il pittore doveva essere – oltre che un sensibile interprete della strategia di coinvolgimento emotivo del riguardante, alla radice, vale ricordarlo, del prodigioso naturalismo caravaggesco – un profondo conoscitore dello stile di vita della confraternita. La rappresentazione supera completamente ogni schema retorico-devozionale per entrare nella sfera del ritratto al naturale, attualizzato attraverso un’intonazione di affettuosa familiarità e pienamente rispondente alle caratteristiche somatiche tramandate anche dai due ritratti del Neri vivente, vale a dire le versioni a mezzo busto eseguite rispettivamente da Federico Zuccari (1593, Bologna, chiesa della Madonna di Galliera) e da Cristoforo Roncalli (Napoli, Pinacoteca dei Girolamini), che hanno dato vita a due coeve ma diverse interpretazioni della personalità dell’oratoriano. In entrambe, come nell’icona in questione, è identica la caratterizzazione del volto: viso smagrito, naso aquilino, occhi infossati dallo sguardo ben vivido, folta barba bianca lunga appena oltre il mento, descritta finemente.
Quanto all’autore del dipinto, le approfondite indagini condotte da Marco Pupillo attraverso una rigorosa ricerca d’archivio consentono di escludere l’attribuzione a Cristoforo Roncalli tramandata da Mariano Vasi nell’Itinerario di Roma (1794). Pupillo, trovando ampio seguito in sede critica, ha proposto di identificare il pittore con il mal noto Francesco Credenza, membro dell’arciconfraternita negli anni in cui questa era frequentata da Filippo Neri.
Il confratello della Santissima Trinità e rettore della chiesa annessa all’Ospedale, Domenico Migliacci, testimoniò circa la presenza di un ritratto “qual fu fatto, vivente il beato padre, da un certo pittore, qual stava incontro a Corte Savella”. Nell’anonimo pittore potrebbe riconoscersi proprio Credenza, sodale della confraternita e stanziato appunto a Corte Savella, l’attuale via di Monserrato, a poca distanza dalla Santissima Trinità dei Pellegrini e ancora meno da San Girolamo della Carità, dove Filippo fin dal 1551 dimorò e dove a poco a poco andò costituendo e consolidando l’esperienza in seguito trasferita nella congregazione dell’Oratorio. È del tutto plausibile che il pittore – di origine spagnola e conosciuto anche come Francesco Spagnolo o Francesco Napoletano, documentato a Roma dal 1552 al 1576 – prima di aderire al sodalizio della Santissima Trinità fosse già tra i discepoli laici raccolti attorno al cenacolo filippino di San Girolamo della Carità. La sua vicenda artistica è tuttora priva di connotati certi, a esclusione di alcune testimonianze testuali che lo descrivono all’opera come indoratore e decoratore di allestimenti lignei. Con certezza egli ricoprì, col favore di Federico Zuccari, le importanti cariche di camerlengo e console (1565) all’Accademia di San Luca, a riprova della stima goduta nell’ambiente artistico romano.
I dati scaturiti dall’odierno restauro rivelano con chiarezza le capacità disegnative e la “prestezza” del presunto Credenza, insieme alla meticolosa cura per il ritratto dal vero, dettagliato con impalpabili gradazioni di terre miscelate al bianco di piombo, quale emerge dallo scenario oscuro della sobria composizione ispirata alla quotidianità umile del santo con vivezza e bonomia, grazie a efficaci doti di introspezione psicologica