Il rilievo, in marmo d’ottima qualità, è dominato al centro dal giovane pastore frigio Attis, il quale sembra attirare l’attenzione su di sé e ignorare ciò che avviene intorno, esprimendo un atteggiamento di vivace disinvoltura e di benevola indifferenza; egli s’appoggia a un bastone nodoso ed è abbigliato con una raffinata veste orientale dalle elaborate pieghe.
A sinistra campeggia Cibele (la Grande Madre, dea della fecondità e della forza vitale): indossa un copricapo turrito e il velo, regge un grande timpano e lo scettro, ed è accompagnata da un leone che fronteggia minaccioso lo spettatore.
Una figura femminile, a destra, avanza verso le due divinità, alzando il braccio in deferente omaggio e portando in dono una preziosa scatoletta rotonda (pyxis): si tratta dell’offerente, che doveva essere una donna d’alto rango, panneggiata con una veste sontuosa e coperta da un mantello. La segue un’ancella recante un piatto di offerte. Le due donne sono raffigurate sullo sfondo di un alto portale socchiuso, attraverso cui accedono al tempio dedicato a Cibele e Attis.
Sono numerose e complesse le varianti del mito che ha come protagonisti Cibele e Attis, il cui culto, legato al tema del ciclo di morte e resurrezione della natura, era molto antico, noto fin dall’età preellenica in Asia Minore.
Le figure della lastra, eseguite con straordinaria abilità dall’ignoto artista, presentano una curiosa mescolanza di stili diversi – di stampo classicheggiante l’imponente e severa Cibele, di schema tardoclassico Attis, meno monumentale della dea, mentre nell’offerente e nell’ancella si nota l’influenza del medio ellenismo (240-150 a.C.). La scultura, databile alla seconda metà del II secolo a.C., proviene probabilmente dalle coste dell’Asia Minore dove, in questo periodo, si diffonde un stile eclettico in cui si mescolano reminescenze classiche con forme baroccheggianti (ravvisabili nell’accentuata eleganza e nell’elaborato panneggio). Dall’Asia Minore l’opera sarebbe giunta a Venezia, pervenendo, nel Cinquecento, nelle collezioni del patriarca di Aquileia e mecenate Giovanni Grimani.
Il restauro ha ridonato al rilievo il suo antico splendore, permettendo di godere della raffinata esecuzione dei particolari, anche quelli più minuti. Inoltre è stato possibile riscontrare come le figure siano state sapientemente scolpite a diversi gradi di rilievo, da cui deriva la grande armonia dell’insieme.
Le alterazioni cromatiche violacee, dovute a precedenti restauri, sono state ridotte e i depositi polverosi sono stati rimossi. Una frattura verticale, già malamente restaurata, è stata ricomposta mediante due perni in ottone filettato e con l’ausilio di resina epossidica. La superficie è stata infine trattata con cera microcristallina, che ha restituito al marmo la lucentezza originale.
Redazione Restituzioni