La scultura in marmo rappresenta il giovane Ganimede, con berretto frigio e corto mantello (clamide), mentre viene rapito da un’aquila mandata da Zeus, o, come racconta Ovidio, dallo stesso dio trasformatosi nel maestoso uccello, che, ad ali spiegate, ghermisce i fianchi del ragazzo e lo solleva in volo. Il futuro coppiere degli dei si volge di scatto, spaventato, a osservare il suo rapitore e crea un patetico scambio di sguardi con l’animale divino.
L’opera apparteneva a Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia, grande figura di mecenate e protettore delle arti. Nel 1587 egli donò alla Repubblica di Venezia gran parte della sua raccolta privata di sculture antiche, dando origine al primo museo pubblico della città, lo Statuario. Il gruppo era uno dei pezzi più importanti della famosa Tribuna, allestita dal Grimani nel suo raffinato palazzo di famiglia a Santa Maria Formosa, nella quale erano collocate più di 130 sculture classiche. Il Ganimede si trovava al centro di essa, sospeso nel vuoto tramite un sistema di ganci infissi nel dorso e nel capo dell’aquila, come una perfetta macchina teatrale; tale collocazione sarebbe poi stata ripresa nell’allestimento dello Statuario.
L’opera dovette essere sottoposta a un restauro integrativo delle parti mancanti intorno al XVI secolo che non ne avrebbe però modificato l’iconografia originaria, come dimostrano i confronti con altri esemplari noti di tale soggetto. Il frammento originale è invece databile alla fine del II secolo d.C., come deducibile dall’uso del trapano corrente nel trattamento della capigliatura e dal rendimento degli occhi con pupilla cava. Si dovrebbe trattare di una replica romana di un modello tardo-ellenistico del I sec. a.C., il quale restituisce una famosa creazione dello scultore greco Leochares, attivo nel IV secolo a.C.. Il luogo di origine della scultura è ignoto.
L’intervento di restauro ha migliorato le possibilità di sopravvivenza di questa fragile opera d’arte antica che si presentava segnata da numerose fratture (dovute a “incidenti di percorso” legati alla sua precaria posizione “sospesa”), ma ha anche rispettato l’integrità dei suoi restauri rinascimentali, che ne fanno un esemplare di estremo interesse per lo studio delle tecniche di restauro cinquecentesco. Si è visto come i pezzi moderni venissero fissati agli originali, opportunamente adattati, con perni e grappe di ferro e assicurati con l’aggiunta di pece greca; inoltre, si è evidenziato come venissero utilizzati, per le integrazioni, marmi differenti per struttura cristallina e colore, semplicemente nascondendo, con una patina stesa sull’intera superficie della scultura, le difformità di colore e le suture.
Redazione Restituzioni