Nell’alto Medioevo il pastoforio a meridione dell’abside della chiesa di San Vitale (VI secolo) fu riadattato per ricavarne una cappella destinata ad accogliere i sarcofagi contenenti le spoglie di tre vescovi ravennati: Ecclesio (522-532), Ursicino (533-536) e Vittore (538-545). I lavori dovevano essere stati già realizzati nei primi decenni del IX secolo, dato che il protostorico ravennate Andrea Agnello descrive la cappella, che ai suoi tempi era dedicata a san Nazario, come già adibita a conservare le tre sepolture privilegiate. Successivamente altri interventi di età moderna alterarono in modo sostanziale la fabbrica, che solo un restauro diretto nel 1903 da Corrado Ricci ha riportato all’aspetto assunto prima del XVI secolo. In origine la fabbrica, coeva alla costruzione della basilica, non comunicava con l’edificio di culto ed era raggiungibile a mezzo di un breve andito che si sviluppava parallelamente al fianco dell’abside, nonché attraverso una porta esterna. Nell’alto Medioevo i due accessi esistenti furono parzialmente murati per ottenerne delle nicchie e un nuovo ingresso (quello tuttora in uso) fu ottenuto sfondando il muro che metteva in comunicazione la cappella con la chiesa. Le nicchie laterali, frutto del tamponamento dei vecchi accessi, furono destinate a contenere i sarcofagi di Ursicino e Vittore (quello di Ecclesio fu collocato al centro del vano), e quella a destra fu affrescata con un’immagine di cui furono trovate labili tracce durante i restauri condotti da Ricci. Il pannello raffigura tre personaggi in piedi. Al centro san Pietro, di statura maggiore rispetto agli altri, è vestito con una tunica e una toga e ha i tratti tipici dell’iconografia canonica: la barba bianca che gli incornicia il volto e il mazzo di chiavi nella mano sinistra; con la mano destra porge qualcosa al personaggio al suo fianco, che è da identificare in sant’Apollinare, il primo vescovo di Ravenna. Il personaggio a destra, riconoscibile dall’iscrizione, è l’arcivescovo di Ravenna Martino, che pontificò dall’810 all’817; è rappresentato con un codice nelle mani e con il capo circondato da un nimbo quadrato, un elemento iconografico che ci permette di individuarlo come ancora vivente all’epoca della realizzazione del dipinto. I personaggi, raffigurati in perfetta frontalità, si stagliano su uno sfondo di colore rosso e sono disposti in ordine gerarchico.
L’immagine rappresenta un tema squisitamente locale, vale a dire la Missio petrina, l’incarico di evangelizzare Ravenna che, secondo la tradizione a noi nota attraverso il testo agiografico comunemente denominato Passio Sancti Apollinaris, l’apostolo Pietro avrebbe dato al protovescovo Apollinare. Il racconto leggendario, nato probabilmente durante il VI secolo, vuole che l’antiocheno Apollinare fosse inviato a Ravenna dal ‘principe degli apostoli’ e che qui avesse subito il martirio a opera delle autorità locali non ancora convertitesi al cristianesimo. Il dipinto può essere ritenuto un buon prodotto realizzato da maestranze locali che risente dell’apporto culturale del mondo bizantino mediato attraverso i modelli affermatisi a Ravenna nei secoli V e VI, come documentano soprattutto le figure umane, non ancora private dei caratteri di corporeità. Nel contempo l’affresco mostra anche di guardare verso le nuove esperienze carolinge che si andavano affermando in quegli anni nell’Italia settentrionale e nei paesi d’oltralpe.