Il paliotto – termine che indica il rivestimento anteriore dell’altare – è composto da sette pannelli di prezioso tessuto decorato: tre teli di velluto rosso cremisi e quattro strisce di lampasso bianco. Sul velluto, ricamato d’oro e d’argento, è disegnata una rete a maglie esagonali formate da trifogli, in cui sono incorniciate delle foglie racchiudenti un sole, una colomba e un cartiglio. Il lampasso, operato in argento, oro e seta gialla, presenta un decoro articolato in piccoli rametti fioriti e sinuosi. Le decorazioni sono realizzate a trame lanciate (i fili sono disposti da un’estremità all’altra della superficie da ricamare, coprendola completamente) e broccate (lavorazione a fili in rilievo).Ai bordi sono applicate delle passamanerie terminanti in frange, in oro quella superiore, in oro, argento e seta color avorio quella inferiore.
Questo paliotto deriva dall’assemblaggio di materiali di pregio riferibili ad aree e periodi diversi. Il velluto è inquadrabile all’ultimo ventennio del Quattrocento e sarebbe il prodotto di una bottega di Milano; a quell’epoca, in città, signoreggiava la famiglia degli Sforza, che aveva fatto eseguire dei preziosi tessuti aulici, ricamati con emblemi araldici, motti e imprese familiari: è proprio tra questi costosissimi manufatti che può essere annoverato il nostro velluto. In particolare, la presenza dell’insegna delle colombine permetterebbe di individuare una committenza specifica in Ludovico il Moro, che fu duca fra il 1494 e il 1500, e in Beatrice d’Este, sua sposa, per i quali è documentata una spiccata predilezione per questo motivo decorativo. Lo schema compositivo a incorniciature esagonali, invece, avvalora l’ipotesi di datazione, in quanto è tipico di numerose sete di fine Quattrocento. Alcune caratteristiche tecniche, infine, confermerebbero la manifattura milanese – ad esempio, l’altezza di 60 cm della pezza, coincidente con la misura stabilita dallo Statuto d’inizio Cinquecento dell’Università dei Tessitori di Seta e Oro di Milano.
Quanto al lampasso, è stato possibile formulare un’ipotesi di provenienza grazie ad un dettaglio tecnico emerso nel corso del restauro. Infatti le trame in argento che coprono il fondo non sono, come si pensava, lamellari (formate da lamine), ma trafilate (costituite da fili a sezione circolare); questa sottilissima e raffinata qualità del trafilato, nonché il disegno decorativo (elementi naturalistici disposti con orientamento alternato), si riscontrano in sete del primo quarto del Seicento prodotte presso la corte indiana dei Moghul e la corte persiana dei Savafidi: a questo stesso orizzonte cronologico e geografico è quindi riconducibile il lampasso in esame.
Le due passamanerie, infine, sono attribuite a maestranze italiane, probabilmente lombarde, databili tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600.
I diversi tessuti furono assemblati per comporre il paliotto, probabilmente per uso liturgico, dopo la seconda metà del Settecento. Ma l’oggetto potrebbe anche essere collegato al collezionismo tessile di fine Ottocento, noto per queste “libere interpretazioni” di reperti antichi; di tale ambito fu esponente di spicco il conte milanese Giangiacomo Poldi Pezzoli, dalle cui collezioni proviene questo paliotto.
I pannelli tessili sono stati staccati e trattati separatamente. I teli di velluto e l’interfodera antica di lino sono stati consolidati a cucito su supporto cotone/poliestere. Nel corso del cucito i filati metallici slegati e fuori posto sono stati riordinati e ancorati al fondo. E’ stata quindi effettuata la pulitura: rimozione dei depositi di cera con impacchi di esano e trattamento finale in tetra cloro-etilene, per immersione. Le fasce di lampasso, dopo il lavaggio in soluzione detergente acquosa per rimuovere le macchie brune, sono state sottoposte a supporto a cucito, previo riordino dei filati metallici, e ricoperte con tulle di nylon.
Redazione Restituzioni