La monumentale Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli fu fatta erigere per un voto degli Eletti della città al loro patrono perché mettesse fine a una terribile pestilenza scoppiata nel 1527. Destinata ad ospitare le reliquie del sangue del Santo, la costruzione fu avviata solo nel 1608, su progetto dell’architetto teatino Francesco Grimaldi, secondo una pianta a croce greca con quattro bracci di dimensione ridotta e cupola a doppia calotta.
I Deputati del Tesoro di San Gennaro, dopo numerose vicende, affidarono nel 1630 la decorazione della cappella al pittore bolognese Domenico Zampieri, il Domenichino, che ne affrescò le lunette, le arcate e i pennacchi; la morte, sopravvenuta nel 1641, gli impedì di portare a compimento la decorazione della cupola. I Deputati si rivolsero allora a un altro pittore emiliano, Giovanni Lanfranco, che era già da tempo attivo a Napoli dove aveva raggiunto grande fama lavorando al Gesù Nuovo, alla Certosa di San Martino e ai Santi Apostoli.
Per ottenere un spazio unitario in cui ambientare la grande composizione del Paradiso, Lanfranco eliminò l’apertura del lanternino, i costoloni e gli stucchi, nonché ogni traccia della decorazione realizzata in precedenza sulla calotta da Domenichino.
Tra il 1641 e il 1642 fu condotta efficacemente a termine l’articolata rappresentazione introdotta da coppie di Virtù dipinte tra i finestroni, dove le pose eleganti e i colori cangianti di tradizione manierista si coniugano al forte modellato ed ad una monumentalità quasi michelangiolesca. Il pittore collocò poi sulle nuvole, in cerchi concentrici, le schiere di Santi e Beati collegati tra loro da un coro di angeli musicanti.
La composizione non presenta alcuna divisione tra le parti, come avviene invece nella cupola romana di Sant’Andrea della Valle (1625-28), altra grande realizzazione del pittore, ma si costituisce come un continuum di figure in movimento, in un andamento musicale ed armonioso, già indicato dal Bellori come caratteristica principale delle composizioni di Lanfranco. Si tratta di un vero e proprio “cielo aperto”, tipico esempio dello spazio infinito, dello sfondato e del movimento che, prendendo spunto dagli esempi di Correggio, Lanfranco aveva messo al centro della sua particolare interpretazione del barocco.
Per la cupola del Tesoro il pittore realizzò un folto gruppo di disegni preparatori – schizzi sintetici che indicano la forma complessiva dei vari gruppi o singole figure definite nei minimi particolari – disegni che venivano poi quadrettati per essere ingranditi sui cartoni, proporzionando la grandezza delle figure in relazione alla loro collocazione nelle parti più alte o più basse della cupola. La pittura è condotta con striature corpose, con tocchi di luce ottenuti con colpi di bianco, caratterizzata dai forti contrasti cromatici delle immagini collocate più in basso, che trapassano in delicati colori pastello realizzati con tinte liquide nei Beati sovrastanti. La costruzione è giocata intorno alle due figure contrapposte del Cristo e della Vergine, il primo sembra collocato al vertice di una piramide di Santi, la seconda è al centro di una composizione circolare che collega le figure in primo piano con quelle collocate posteriormente.
Lanfranco iniziò la decorazione della cupola dalla sua sommità, procedendo quindi verso il basso.
Sull’intonachino ancora bagnato, applicato in zone più o meno ampie – le cosiddette “giornate” – venivano poi appoggiati i cartoni preparatori attraverso i quali il pittore incideva i contorni delle figure. Il colore fu poi steso sull’intonaco fresco con pennelli di notevoli dimensioni, dal diametro variabile da uno a sei centimetri, con tocchi rapidi e decisi. Per ammorbidire i contrasti tra le varie zone di colore giustapposte il pittore ne sfrangiava i bordi con rapidi tratteggi che gli permettevano di ottenere una più armonica definizione dei volumi alla visione dal basso.
Nel 1786 un gravissimo nubifragio causò notevoli danni alla cappella, in particolare agli stucchi della volta e degli archi, che furono ridorati. Nel 1788 gli affreschi furono nel loro complesso restaurati dal pittore Fedele Fischetti, che effettuò alcune integrazioni pittoriche con una certa libertà interpretativa. Tra il 1786 e il 1788 vennero inoltre ridipinti quasi tutti gli azzurri e vennero applicate centinaia di grappe a L e a T nel tentativo di ancorare gli intonaci al loro supporto murario.
Prima dell’intervento di restauro gli intonaci affrescati si presentavano interessati da notevoli distacchi dalla muratura. La lettura dei dipinti era fortemente alterata per la presenza di un fitto reticolo nero, dovuto al depositarsi dello sporco e del fumo delle candele nelle crettature dell’intonaco. Erano inoltre molto evidenti ritocchi alterati sulle grandi stuccature al di sopra degli otto finestroni e in molte altre zone della cupola. La maggior parte dei mantelli, originariamente in azzurrite, erano completamente ridipinti.
Con l’intervento sugli affreschi di Lanfranco, condotto da Raffaele Garzone della Società Tecnireco, si è conclusa una lunga campagna di conservazione sul ciclo di dipinti che decora la Cappella del Tesoro di San Gennaro, avviata nel 1984.
Le prime operazioni effettuate sugli affreschi della cupola sono state tese a consolidare tra loro i vari strati di cui è composto l’affresco, facendo riaderire l’arriccio – primo strato di intonaco ruvido – alla muratura, e l’intonachino – l’intonaco più sottile e levigato sul quale venivano stesi i colori – all’arriccio. Sono state quindi eliminate quasi tutte le grappe applicate alla fine del ‘700, escludendo solo quelle poche il cui distacco avrebbe presentato rischi eccessivi. Si è poi proceduto all’eliminazione delle efflorescenze saline che avevano determinato diffusi imbiancamenti sulla pellicola pittorica, e quindi al fissaggio del colore sollevato e decoesionato con resine acriliche in emulsione a bassa concentrazione. La pulitura è stata effettuata con una soluzione basica applicata con carta-filtro tamponata con spugna, con la quale sono stati eliminati i depositi organici e carboniosi anche dalle cavità del cretto. Nel corso dei lavori si è inoltre stabilito di non rimuovere le ridipinture presenti sui mantelli azzurri, dal momento che non era possibile riportare alla luce il pigmento originale (azzurrite), irrimediabilmente perduto. Le lacune e le lesioni, stuccate con malta simile all’intonaco originale, sono state integrate pittoricamente con colori ad acquerello.
Redazione Restituzioni