Eseguita tra il 1620 e il 1625 circa per la chiesa di Santa Maria della Rotonda a Roma (cioè l’antico Pantheon) dove di fatto non fu mai collocata, la tela fu portata a Pisa dallo stesso Riminaldi e rimase presso la sua famiglia anche dopo la sua morte, per essere poi posta nella chiesa di Santa Caterina, nella stessa città. Nel 1693 fu acquistata dal Gran Principe Ferdinando de’ Medici e trasferita nella collezione conservata nell’appartamento al primo piano di palazzo Pitti. Con l’occasione, sull’altare pisano fu sistemata una copia eseguita da Anton Domenico Gabbiani, al quale spettò anche il compito di intervenire sull’originale, allargando il dipinto su tre margini per adattarlo alla sontuosa cornice in legno intagliato e dorato, che l’accompagna ancora oggi.
Sul fondo scuro la composizione, limitata a sole tre figure, risalta con drammatica evidenza grazie al fascio di luce vibrante e diretta, che da sinistra isola e tornisce le forme, esaltando la gamma cromatica ricca e densa. La scena illustra, come un fotogramma cinematrografico, l’attimo eclatante e terribile nel quale il carnefice sta per vibrare il colpo mortale mentre l’angelo dall’alto già reca la corona e la palma, segni del martirio e della santità. È un dipinto in cui la lezione di Caravaggio si avverte pienamente assimilata, per quanto di rivoluzionario essa aveva prodotto sulla pittura dell’epoca, in termini di naturalismo della rappresentazione e di uso della luce. E tuttavia, la ricercata eleganza tanto nella resa delle stoffe, di cui il pittore rende con studiata attenzione i contrasti di blu lapislazzuli, con il giallo e con il bianco, che negli effetti morbidi delle carni di santa Cecilia e dell’angelo, indicano quanto nel bagaglio culturale del pittore avessero contato anche la pittura di Simon Vouet e Guido Reni.
Anna Bisceglia
Foto del dipinto centrale: Claudio Giusti