Il dipinto, posto sul primo altare a sinistra dell’ingresso dell’Oratorio dei Girolamini, raffigura in un’unica scena la decapitazione di san Pantaleone e la più familiare lotta di san Giorgio contro il drago. Dal punto di vista compositivo, tale schema, del tutto originale, appare come una traduzione in chiave sacra dell’iconografia classica di Perseo che libera Andromeda (Ov. Met., IV, 663-752) e della sua variante rinascimentale con Ruggiero che salva Angelica, tratta dal canto decimo dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto e ispirata allo stesso testo ovidiano. Gli scrittori ottocenteschi spiegano la singolare cointitolazione dell’altare a Pantaleone e a Giorgio, entrambi martirizzati a Nicomedia al principio del IV secolo, con la memoria di due chiese dedicate ai medesimi santi, abbattute per far largo al complesso filippino. Non è inoltre da trascurare come Pantaleone fosse particolarmente venerato anche a Santa Maria in Vallicella a Roma, ovvero nella chiesa madre della congregazione oratoriana, che del martire orientale conserva tuttora la prodigiosa reliquia del sangue. La pala, per unanime consenso della critica, si pone tra i vertici della maturità di Gaetano Gandolfi, tra le figure più alte del Settecento pittorico italiano. Secondo quanto testimoniato dalle fonti e confermato dal restauro, che ne ha rivelato la firma e la data, il quadro dovette essere compiuto a Bologna entro l’ottobre del 1782; si tratta dunque di uno dei primi lavori eseguiti dall’artista, ormai protagonista dell’ambiente felsineo, dopo la morte del fratello maggiore Ubaldo; pur restando eccezionale nel patrimonio artistico meridionale, la presenza della pala ai Girolamini risulta coerente con la tradizione di gusto filo-emiliano che ne caratterizza la decorazione pittorica, rappresentata – com’è noto – da cospicui esempi della produzione di Guido Reni e di Giovan Francesco Gessi. Del dipinto è noto un fedele modelletto preparatorio in collezione privata.
Giuseppe Porzio, Sergio Liguori