La tela – una delle prime opere note del giovane Benedetto Diana, nonché una delle poche databili con una certa precisione del catalogo dell’artista, proveniente dagli Uffici della Zecca di Venezia – offre una precoce testimonianza di come l’iconografia votiva dell’omaggio alla Vergine, sviluppata in ambito belliniano e riservata inizialmente all’elezione dei dogi, si andasse estendendo, nel corso della seconda metà del Quattrocento, ad altre cariche pubbliche di rilievo, per divenire prassi consolidata all’interno di un filone devozionale della ritrattistica celebrativa che si innesta, con esiti di intenso naturalismo, sugli schemi rinnovati della ‘Sacra Conversazione’.
All’interno di un’ampia e pausata composizione che si dipana in senso orizzontale entro un impaginato rigorosamente simmetrico, scandito da una sapiente progressione di piani, le figure dei santi Girolamo e Francesco e dei due donatori si dispongono, spaziate, ai lati della Vergine che – assisa in trono con il Bambino e immersa in una luce calda e avvolgente – si staglia contro lo sfondo del cielo e di una veduta d’acqua conchiusa sulla linea dell’orizzonte da una bassa e dilatata prospettiva di paese. Perno strutturale della raffigurazione e il “bizzarro trono di sapore ferrarese”(Antonio Paolucci) su cui si addensano i significati simbolici religiosi e civici dell’opera e dove, entro un assetto architettonico di capziosa eleganza formale non estraneo a suggestioni provenienti dall’arte orafa e dai contemporanei modelli della scultura in bronzo, la metafora mariana del fonte battesimale sembra coniugarsi con l’idea stessa dello scrigno prezioso (la Zecca di Venezia) in cui è custodito il tesoro della Serenissima, posto ai piedi della Vergine.
L’identificazione dei ritratti dei donatori inginocchiati in primo piano e affiancati ai santi eponimi con i due ‘massari monete argentii’ Girolamo Pesaro e Giovanni Francesco Trevisan – riconoscibili grazie alla presenza degli stemmi del casato apposti ai lati del trono – ha fornito un utile appiglio per la cronologia del dipinto.
La documentata elezione alla carica nel 1486 sembra infatti consentire l’assegnazione dell’opera a una data non troppo distante da quell’anno (da ritenersi almeno coincidente con quello di commissione del dipinto, se non proprio con i tempi di effettiva esecuzione), sulla quale concordemente si è appuntata la critica nel dar conto di quella complessità di riferimenti culturali e pronta ricettività selettiva delle cruciali novità apportate in laguna da Antonello da Messina, Bellini e Carpaccio nell’ultimo quarto del Quattrocento, che – in una difficile sintesi tra rigore formale e pungenti istanze espressive di stampo realistico mutuate dai protagonisti più sensibili della terraferma – sembra essere il tratto distintivo della personalità artistica originalissima e autonoma del pittore fin dai suoi primi esordi giovanili.
Claudia Cremonini
Foto Matteo de Fina, foto diagnostica: Davide Bussolari Diagnostica per l’Arte Fabbri