Della destinazione originale della tavola non sappiamo purtroppo niente, essendo apparsa per la prima volta nel 1800, a Roma, tra un nucleo di opere sequestrate in seguito alle soppressioni napoleoniche.
Il formato fa pensare che si trattasse di un’opera di destinazione privata, un “quadro da camera”, tipologia per la quale è assai difficile rintracciare una committenza, in mancanza di elementi distintivi, iconografici, per esempio, o dinastici. Il dipinto, infatti, raffigura un gruppo di figure sacre – la Madonna con il Bambino, san Giovannino e santa Elisabetta – che costituiva una scelta particolarmente apprezzata e coniugava modelli di maternità e relazioni familiari intergenerazionali come spesso si trovavano nella società a base fortemente patriarcale del tempo. Anche tra i nobili o i ceti abbienti era infatti molto comune che convivessero sotto lo stesso tetto diverse generazioni e che alla donna dovesse essere offerto un modello di pace domestica, dato che quasi sempre era lei a doversi integrare nella famiglia d’origine del marito.
Il dipinto non ha goduto di sufficiente attenzione da parte della critica, verosimilmente a causa dello stato di conservazione precedente all’attuale restauro, che presentava una superficie pittorica largamente ridipinta. Possiamo però affermare che costituì comunque a suo tempo un modello fortunato nell’ambito della bottega del Bronzino, come si evince dall’esistenza di una copia molto fedele, già attribuita a Perin del Vaga, passata all’asta a Milano nel 1988 e oggi nota soltanto da una foto della Fototeca Zeri (n. 36624).
Durante il restauro sono riemersi molti elementi figurativi, coperti di ridipinture spesso fatte per rimediare ai danni causati dalle aggressive puliture subite in passato. Il fondo, che appariva uniformemente coperto da uno strato nero e opaco, si è rivelato essere stato originariamente dipinto in una tonalità violacea, con un pigmento a base di cinabro e forse un pigmento blu non rilevabile con tecniche di indagine non invasive, che in parte si è alterato e in parte è stato asportato. Rimane però la traccia del tendaggio, drappeggiato sulla sinistra, ampiamente ridipinto con pigmenti a base di terre e ocre, che dà un’ambientazione alla scena, aprendo verso la profondità e, di conseguenza, evitando l’effetto di schiacciamento in primo piano delle figure. Il Bambino era parzialmente coperto da un drappo verde, a nascondergli la nudità, secondo un gusto tipicamente moralistico. La nudità del Bambino Gesù è invece un importante carattere teologico, connotazione dell’incarnazione e della doppia natura di Cristo, vero Dio e vero uomo.
Infine i due fiori che san Giovannino porge al Bambino erano stati trasformati in un frutto, di improbabile forma, perché fortemente abrasi.
La pulitura ha poi permesso di recuperare la bella materia degli incarnati eburnei della Madonna e dei due bambini, il blu raffinato del manto della Madonna, realizzato in lapislazzuli e lacca rossa, e di ritrovare gli originali volumi della testa di santa Elisabetta e delle capigliature dei bambini.
Stilisticamente l’opera è riconducibile alla fase matura dell’attività del Bronzino, con riferimenti tipologici all’Allegoria di Budapest (1550), alla Discesa di Cristo al Limbo per Santa Croce (1552) e al Martirio di san Lorenzo (1569) per l’omonima basilica di Firenze. È possibile riconoscere nell’esecuzione una collaborazione di Alessandro Allori che, come è noto, fu non solo allievo, ma anche collaboratore a più riprese del maestro. Particolari come la presenza importante di fiori nel dipinto e le capigliature bronzee dei bambini sono, ad esempio, rintracciabili anche in lavori del più giovane dei due artisti, a lungo nella sua carriera e ancora presenti in opere tarde come l’Incoronazione della Vergine (1593) e l’Annunciazione (1603), entrambe alla Galleria dell’Accademia di Firenze.