La Trasfigurazione di Giovanni Bellini fa parte della collezione Farnese che, conservata prima a Roma, poi a Parma, giunge infine a Napoli nel 1734 con Carlo di Borbone. Non si conosce la destinazione originaria della tavola, ma la critica è orientata a identificarla con la “bellissima pittura” di Bellini che il Barbarano ricordava nella cappella Fioccardo del duomo di Vicenza. L’episodio evangelico rappresenta sia il riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio sia la continuità con l’Antico Testamento. La sua raffigurazione diviene un soggetto a sé stante per le pale d’altare in seguito alla proclamazione nel 1457 da parte di papa Callisto III della Trasfigurazione come festa della Chiesa universale, a seguito della vittoria dell’esercito cristiano sui turchi, il 6 agosto 1456.
Nella personale interpretazione degli elementi canonici dell’episodio l’artista inserisce una serie di riferimenti legati probabilmente alla committenza: i monumenti ravennati sullo sfondo, il Mausoleo di Teodorico e la chiesa di Sant’Apollinare in Classe, sono legati al cardinale veneziano Giovanni Battista Zen, vescovo di Vicenza e forse tramite fra l’artista e i Fioccardo. Il richiamo a Ravenna è anche iconografico: Cristo si presenta non in conversazione con i profeti ma nella posa orante, che sembra riprendere il sant’Apollinare del mosaico bizantino. Il paesaggio gioca un ruolo chiave, emozionale per la narrazione e simbolico per la metafora della presenza di Dio, evocato nelle nuvole temporalesche e in ogni elemento che diviene partecipe del messaggio salvifico della morte e Resurrezione di Cristo.
La storia conservativa ha lasciato le sue tracce sul dipinto: la ridipintura ottocentesca della testa di san Pietro, che il restauratore Achille Fiore vantava di aver “supplito”, è tuttora presente e non è stata rimossa poiché occupa un’estesa abrasione del colore originale. Pur con alcuni danni, tuttavia, l’opera conserva la ricchezza cromatica che deriva da un’esecuzione raffinatissima e sapiente. Le indagini hanno evidenziato il disegno preparatorio a pennello che definisce ogni elemento della composizione; l’area del prato che circonda le figure è resa con lievissime velature stese su uno strato preparatorio verde chiaro spesso e coprente in cui al legante oleoso è stato aggiunto rosso d’uovo. I materiali pittorici rivelano la tensione a evocare la trascendenza dell’evento sacro e al tempo stesso rendere reale e tangibile la scena rappresentata. Il biancore delle vesti di Cristo è modulato unendo alla biacca minime quantità di lacca rossa per la veste, di stibnite – minerale nero dai riflessi metallici – per il tono azzurrino del manto. Le rocce sono rese con mescolanze di colori contrastanti che conferiscono alle ombre un tono ora verdastro, ora rosato. Sul cielo luminoso di blu lapislazzuli si addensa una nube composta da azzurrite: è la nube di cui parlano i Vangeli, che compare avvolgendo con la sua ombra e da cui giunge la voce di Dio Padre. L’oro, infine, è usato nell’aureola di Cristo, a simboleggiare la luce divina, su un alone luminoso dipinto con una velatura di colore ambrato.