La pala, destinata ai frati minori di Salò cattura il nostro interesse per alcuni particolari poco “ortodossi”. Apparentemente, la scena si configura come una consueta rappresentazione di Madonna con il Bambino in trono e santi. In realtà, la sostituzione del consueto sfondo di architettura ecclesiastica con un’ambientazione campestre, di grande impatto lirico, conferisce all’immagine una dimensione umile, vicina alla spiritualità francescana. In quest’ottica, la presenza dei due santi laterali – Sebastiano, nella tradizionale postura che lo vuole legato a un albero e trafitto dalle frecce del martirio, e Bonaventura, chiuso nel bel piviale rosso ricamato in filo d’oro con le sagome dei serafini – arricchisce il messaggio devozionale dell’opera. Essi, infatti, collocati quasi allo stesso livello della Vergine, ne condividono la dimensione celeste, fungendo da tramite per l’osservatore esterno.
La Vergine indossa una veste di velluto rosso sontuosamente coperta da un drappo giallo ocra, cui fa da contrasto un trono niente affatto monumentale dove il legno – puntuale riferimento alla leggenda medievale dell’Albero della Vita – è l’assoluta materia prima: collocato su un semplicissimo tavolato, l’umile seggio è composto da assi inchiodate a piccoli tronchi e completato sullo schienale da un drappo verde retto dai rami intrecciati di due arbusti, a chiosare il messaggio pauperistico dell’opera.
Il dipinto costituisce il frutto di una serie di rapporti che il pittore bresciano aveva instaurato con la cittadina di Salò, dove aveva ricevuto alcune commissioni, per destinazioni pubbliche (il Duomo, la loggia del Palazzo del Provveditore) e private.
Sulla base di considerazioni stilistiche, l’opera è stata riportata alla fine del secondo decennio del Cinquecento (1517-18), anche se non sono stati trovati documenti che possano confermare l’ipotesi. Le fonti antiche, tuttavia, attestano la destinazione alla chiesa di San Bernardino, dove l’opera è rimasta fino al 1906. Agli inizi del Novecento, dopo un terremoto, si rese necessario il trasferimento presso il Duomo cittadino, dedicato a Santa Maria Annunciata. Qui è ancora possibile ammirare l’opera nella sua integrità, collocata sulla parete tra la prima e la seconda cappella della navata sinistra e racchiusa in una recente cornice in legno dorato.
La storia conservativa della tela ci è purtroppo nota per gli aspetti negativi che l’hanno caratterizzata, per quei “cattivi ritocchi” osservati già a inizio Novecento, in concomitanza con l’unico restauro storicamente documentato (1913).
Nel tentativo di asportare le antiche ridipinture, quest’ultimo contribuì a un ulteriore danneggiamento della superficie pittorica, causando la perdita di delicate stesure di finitura originali. Altri problemi sono stati determinati dai sollevamenti del colore e degli strati di preparazione. É stato così necessario un primo lavoro di ricognizione, mirato a individuare i punti più penalizzati, per procedere poi al riadagiamento e consolidamento dei dissesti più profondi.
Grazie all’odierno intervento è ancora possibile fruire dell’originaria tonalità luminosa e calda, contrassegno di una fase in cui Romanino risente della cultura figurativa veneziana, ben visibile nella qualità cromatica e corposità degli impasti.
Redazione Restituzioni