Restituzione è la parola più appropriata per presentare il caso della Campana di Luigi Mainolfi del 1978-1979, inizialmente destinata alle raccolte del Museo di Capodimonte ed entrata a far parte delle collezioni della GAM nel 2001. Non si è trattato solo di un tradizionale restauro, ma d’immaginare le condizioni necessarie alla sua esistenza, assicurando la possibilità di future occasioni espositive nonostante la fragilità dei materiali e la complessità delle operazioni di assemblaggio delle parti che la compongono.
Si tratta di un’opera cruciale per la storia dell’arte italiana relativa al periodo di trasformazione delle poetiche tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Contro ogni tendenza artistica prevalente in quel tempo, Mainolfi decise di realizzare una scultura che potesse smarcarsi sia dalle ricerche concettuali dell’Arte Povera sia dal rinato interesse per la pittura espresso dalla Transavanguardia. Realizzare una grande campana corrispondeva a una dichiarazione di volontà: era tempo che tornasse a risuonare il primato del fare, dell’essere artista nello studio, del misurarsi con l’opera e la sua creazione materiale.
Mainolfi lavorò all’opera per più di un anno. Prese spunto iniziale dalle storie di Zeusi, ma presto lasciò che la fantasia si liberasse a comporre un universo di scene disparate, a raccontare un mondo in cui tutti gli aspetti della vita antica fossero rappresentati: non solo l’arte, ma anche la guerra, la pastorizia, i giochi e i più diversi mestieri. L’unico elemento che compare nel mezzo di due fasce istoriate, a interrompere il cordolo che le separa, è un Pegaso alato con una figura d’eroe che lo cavalca. Solo quell’immagine tra il divino, l’umano e l’animale poteva muoversi tra i diversi piani. E chissà che in essa anche l’artista, per quel suo voler stare nel mezzo tra la dimensione ideativa e concettuale dell’arte e quella del fare, a metà tra la tradizione della scultura e quella della pittura, non trovasse un suo alter ego.
Quando Mainolfi ultimò La Campana in gesso bianco, gli apparve simile alla Colonna Traiana. Il dipanarsi del fregio istoriato, chiuso tra l’elemento lineare dei cordoli, rende le due opere paragonabili, ma il ritmo narrativo è molto diverso. Le scene di Mainolfi si svolgono in spaziature classicheggianti dove la presenza continua delle arcate a tutto sesto determina un disteso ritmo di pause, intervallate da brevi tensioni dei corpi che si risolvono in contrappunti pacati, in equilibri leggeri. Nella Colonna, di gusto ellenistico, tutto è invece concitato, compresso in una ininterrotta fuga verso l’alto. Forse proprio il ricordo del corpo cavo della colonna, il vano della scala a chiocciola che trova spazio al suo interno, spinse Mainolfi a contemplare la possibilità di una uguale e opposta tensione: non verso l’alto ma verso la profondità.
Decise di aprire un varco alla base dell’opera e ne lavorò l’interno. Incise disegni visionari: animali, accumuli di corpi, paesaggi, figure irreali, sfere, anfore, un diavolo panciuto, tutto tracciato senza alto né basso, senza coordinate, ma come in rotazione perpetua, come fosse il ventre stesso della terra da cui si genera, avvoltolandosi e dipanandosi, ogni forma. Addentrarsi nella campana è un passaggio dall’idillio classico dell’esterno alla visione primordiale dell’interno. Le scene d’Arcadia ricoprono un nucleo primordiale che si è fatto crogiuolo, antro, grotta del primo gesto umano che fu tracciato con polveri di manganese sulle pareti delle caverne. Mainolfi decise allora di rendere incandescente anche la veste: “infuocai l’esterno di un vento rosso” scrisse nel 1982, così che il suo aspetto, composto dal continuo sovrapporsi di arcate, rivelò una diversa, inaspettata, somiglianza con le pareti tinte di rosso e ocra della Torre di Babele di Pieter Bruegel il Vecchio del 1563. A differenza della torre biblica, però, La Campana non è fatta per essere distrutta, e ora è assicurata alla nostra memoria.