Nel IV secolo dopo Cristo l’imperatrice Pulcheria costruì a Bisanzio una piccola chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice (Soritissa). La chiesa, che doveva conservare una reliquia della santa veste di Maria giunta da Gerusalemme, venne detta Chalkoprateia perché collocata sulla piazza del mercato del rame. Proprio da questo episodio assume il nome la tipologia iconografica a cui fa riferimento l’icona in esame. La Madre di Dio Chalkoprateia è rappresentata a figura intera, come orante o intercedente, ed è anche chiamata Vergine del Soccorso. Il tipo può far parte anche di un trittico (Deesis) che comprende la Vergine Maria, san Giovanni Battista e, posto al centro, il Cristo benedicente (Pantokrator). Numerose sono le varianti iconografiche di questo soggetto attestate in epoca successiva.
La piccola icona, probabilmente di carattere privato e devozionale, fa parte del Tesoro di san Marco, ma l’epoca di acquisizione rimane imprecisata (così come l’icona di scheda 22, Restituzioni 2008). Le caratteristiche formali dell’oggetto, nonché la sua dimensione ridotta, fanno pensare che si tratti di un’icona da viaggio, o meglio usata come pendente di una collana. Il supporto in legno d’abete, e la mancanza della consueta preparazione a gesso e colla, rimangono tuttavia piuttosto inconsueti per il genere. L’icona è in ogni caso rivestita da una riza d’argento che lascia scoperta solo la figura della Vergine. Proprio in questa zona, e particolarmente nel settore centrale della veste, si nota un residuo di policromia di colore azzurro oltremare e rosso purpureo. Ancora visibili, sulle parti marginali della tavola, sono anche alcune lettere greche. I caratteri greci sbalzati sulla riza sono invece confusi e mal decifrabili.
La metodologia di intervento ha dovuto considerare il fatto che le tracce pittoriche erano più consistenti di quanto si era fin qui supposto. Le due parti dell’oggetto sono state dunque smontate e si è proceduto ad un restauro conservativo della tavola e della sua copertura. Nell’operazione di schiodatura ci si è accorti che in una precedente fase di sistemazione, individuata intorno alla metà dell’Ottocento ad opera degli orafi Favro, la tavoletta era stata rovesciata e rimontata scambiando l’alto per il basso. Il disinteresse degli orafi restauratori per la pittura fu tale che adattarono alla rovescia le iscrizioni dipinte, per fissarle alla camicia in argento. L’obiettivo fu essenzialmente quello di ripristinare la funzionalità dell’oggetto.
Il restauro ha soprattutto permesso di studiare con più attenzione il manufatto. La riza appare a tutti gli effetti risalente all’ultimo periodo dell’arte degli imperatori Paleologi di Bisanzio. L’analisi epigrafica ha consentito di attribuire la tavola a maestranze che copiavano ma non intendevano il greco (così come evidentemente la committenza). Si tratterebbe quindi dell’opera di una bottega provinciale di epoca paleologa, attiva tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento in area veneziana. Per la riza invece il confronto della fitta lavorazione a niello, dalle linee spezzate, con esempi analoghi (anche, ad esempio, con la legatura di un codice conservato alla Biblioteca Marciana) fa pensare ad un’esecuzione un poco più tarda, nella prima metà del Quattrocento, presso una bottega orafa veneziana.
Redazione Restituzioni