Capo delle schiere celesti, l’arcangelo Michele è il più autorevole guerriero di Dio. Venezia, che ne fa il custode della fede e dello Stato, lo rappresenta con larghezza, secondo l’iconografia propria del custos (custode), all’esterno della Basilica di san Marco, sullo spigolo fra le due facciate di Palazzo Ducale, nell’arco ogivale duecentesco relativo al secondo portale della facciata ovest della Basilica. Pur riprendendo un soggetto caro ai veneziani dunque, l’icona in esame presenta un’iconografia antichissima, attestata tanto in Oriente quanto in Occidente: a mezzo busto e con le ali spiegate, l’arcangelo Michele è vestito con il loros (veste imperiale), ha un diadema fra i capelli, nella mano sinistra tiene il labaron (scettro) mentre il palmo della destra è rivolto all’osservatore in atto di protezione. Ventidue dischi di smalto cloisonné, raffiguranti i busti di altrettante figure, circondano l’arcangelo. Prodotti anch’essi dell’arte costantinopolitana dei secoli XI-XII, rappresentano Maria (nell’iconografia della Vergine Avvocata) e il Pantocrator; i due arcangeli Uriele e Gabriele; i quattro evangelisti; i sei apostoli Paolo, Bartolomeo, Simeone, Tommaso, Andrea e Giacomo; il Precursore, Matteo il teologo, e i santi guerrieri Giorgio, Teodoro, Demetrio, Procopio, Mercurio, Eustrazio. Circa la funzione originaria dell’opera, si deve a Jacopo Morelli, nei primi anni dell’800, l’ipotesi che l’icona sia una «Tabella Votiva per Vittoria da ottenersi, o in rendimento di grazie». Le fasce esterne del verso dell’icona sono rivestite da una sottile lamina d’argento sbalzato: la foggia e l’esecuzione del motivo decorativo sono compatibili con altri prodotti dell’oreficeria veneziana eseguiti intorno alla metà del XIV secolo.
Giunta a Venezia forse al tempo della IV Crociata, l’opera ha subito nel tempo profonde trasformazioni, legate sia ad esigenze liturgiche sia a necessità conservative. Già anticamente, forse a metà del Trecento, orafi veneziani modificarono l’aspetto originale dell’opera costantinopolitana: l’aggiunta di pietre semipreziose doveva infatti renderla degna di essere presentata nelle principali feste e solennità della Chiesa. In tempi moderni, tra il 1834 e il 1850, l’oggetto subì due restauri, opera entrambi degli orafi veneziani Lorenzo e Piero Favro. Nel secondo di questi interventi i Favro diedero tra l’altro una nuova disposizione ai dischi di smalto, che portò ad alcune incongruenze, come la ripetizione del soggetto del san Matteo e numerosi scambi di posizione dei dischi. Lo studio dell’icona ai fini del restauro attuale ha condotto ad una mappatura delle due facce dell’opera con l’individuazione degli interventi dovuti ai restauri passati: è stato possibile anche proporre un progetto di riordino dell’assetto iconografico, che punti all’avvicendamento degli smalti scambiati di posizione. Poiché tuttavia tale intervento non sarebbe sostenuto da nessun documento, è stato convenuto di mantenere l’icona nella sua veste ottocentesca, messa a punto dal restauro dei Favro.
Per il restauro si è adottata una metodologia strettamente conservativa. Con microtamponi, imbevuti in vari solventi testati e con l’impiego di polvere finissima di carbonato di calcio, sono state pulite le superfici d’argento che erano alterate da sostanze organiche grasse o cerose. Le superfici a smalto sono state pulite con microtamponi imbevuti alternativamente di trielina, essenza di trementina e acetone. Le lacune della camicia sul verso dell’icona sono state risarcite con piccole e nuove porzioni di lastra dalle caratteristiche analoghe. Le parti sollevate delle lamine sono state fissate con colla o, dove esistevano i fori, con piccoli chiodi d’argento dorato. L’intervento di integrazione si è limitato solo ad alcune pietre in vetro colorato della cornice esterna, sostituite con integrazioni in resina colorata e sfaccettata. Con resina nitrocellulosa applicata a pennello sono state protette dall’ossidazione le superfici metalliche in argento e argento dorato. Le gemme vitree e il castone in argento mancanti sono stati rifatti a somiglianza degli originali.
Redazione Restituzioni