Le tre coppie di santi disposti su un basamento marmoreo, calati in un limpidissimo contesto naturalistico e rivolti frontalmente allo spettatore, costituiscono una singolare testimonianza della cultura figurativa veneta di primo Cinquecento.
Siamo di fronte a una mano che riesce ad appropriarsi dello schema tradizionale dei santi messi in fila, di chiara memoria bizantina, per conferirle un respiro più ampio, attraverso la dimensione paesaggistica che accoglie i protagonisti della scena: i santi Giacomo maggiore e Antonio abate a sinistra, Andrea e Domenico di Guzman al centro e infine Lorenzo martire e Nicola di Bari a destra. In particolare colpisce come l’aspetto monumentale dei santi sia capace di coniugarsi, in modo estremamente armonioso, all’immenso cielo che fa da sfondo e alla natura minutamente descritta, non priva di allusioni allegoriche, a partire dalle piantine e dal pappagallo in primo piano fino al prato verde e alle montagne azzurrine del secondo piano.
L’opera, sottratta per diverso tempo alla vista del pubblico, è conservata presso l’Accademia Carrara di Bergamo, corredata da un’etichetta, oggi contestata, che la assegna a Carpaccio. La particolarità dell’iconografia fa comunque pensare a una personalità di tutto rispetto.
Da un punto di vista materiale, la storia dell’opera non ha di certo contribuito a chiarirne gli aspetti interpretativi, semmai a complicarli. L’autore infatti aveva dipinto ogni coppia su tre diverse tavole, che furono poi artificiosamente unite: ciò avvenne già prima del 1836, quando Guglielmo Lochis acquistò l’opera per la propria collezione. Sulla base di questa artificiale unificazione Roberto Longhi propose, determinando così il generale orientamento degli studi, l’assegnazione a Carpaccio, a discapito degli altri nomi chiamati in causa: Cima da Conegliano, Gerolamo da Santacroce, Bartolomeo Veneto, Andrea Previtali. In seguito al ripristino dell’originaria composizione, avvenuto con l’ultimo restauro, l’ipotesi longhiana è stata messa in discussione, aprendo la strada a nuovi spunti interpretativi.
Gli interventi che hanno riguardato quest’opera non sono pochi: la tavola infatti continuava a spaccarsi, con gravi sollevamenti sulla superficie, tanto da costringere a una copertura preventiva e alla rimozione dal percorso museale dell’Accademia Carrara. L’ultimo restauro è stato dunque molto importante, soprattutto per la separazione delle tavole che ha consentito di riportare l’opera al suo assetto originario, ma anche per il bellissimo recupero dell’originaria qualità cromatica, sfolgorante e tersa. Interessanti per la datazione sono state anche alcune indagini relative alla tecnica di esecuzione e alla composizione del colore: esse hanno infatti permesso di circoscrivere l’opera al periodo compreso fra l’ultimo ventennio del XV e il primo decennio del XVI secolo.
Redazione Restituzioni