Le cinque erme del Museo Nazionale di Ravenna rivestono un eccezionale interesse, sia come testimonianza scultorea dell’arte classica, in quanto copie romane del II secolo di prototipi greci perduti del V, IV e III secolo a.C., sia per i soggetti rappresentati della serie degli uomini illustri, eroi e filosofi del mondo greco.
Due raffigurano Milziade, di cui la più nota del gruppo porta sul pettorale due epigrammi in latino e in greco che ne permettono l’identificazione certa con il famoso condottiero della battaglia di Maratona del 490 a.C.
Altre due erme, sempre in marmo pentelico, riproducono i ritratti dei filosofi Carneade (214-129 a.C.), scultura di impronta classicista, replica dei primi decenni del II secolo in età adrianea, ed Epicuro (342-271 a.C.), che colpisce per lo spiccato colorismo della fisionomia e del modellato. Infine il Dioniso-Platone (?) e invece in pavonazzetto, dai caratteri più arcaici di sapore fidiaco, il cui prototipo si colloca nella seconda meta del V secolo a.C. e l’esecuzione in età antonina. Si distingue dalle altre anche per il tipo di lavorazione delle ciocche della barba profondamente incise dai fori eseguiti con il trapano.
Le cinque erme approdarono a Ravenna perché ripescate del tutto fortuitamente nel 1936 e nel 1938 da alcuni pescatori poco al largo del litorale ravennate, tra porto Corsini e la foce del Reno. La storia dei loro rinvenimenti apre un capitolo da raccontare ricostruendone i vari passaggi e le perigliose vicissitudini. Il gruppo delle erme conduce agli studi e alle passioni antiquarie in voga nel XVI secolo (Orsini, Pighius, Stazio, Ligorio) e investe il collezionismo estense tra Roma e Ferrara.
Le erme erano state ritrovate nel Cinquecento, i due Milziade e l’Epicuro molto probabilmente nella vigna Strozzi al Celio, e acquisite dal cardinale Ippolito II d’Este, noto per aver realizzato la villa d’Este a Tivoli e quella sul Quirinale a Roma.
Nel 1573 le erme presero la via per Ferrara, destinate ad arricchire la collezione del nipote di Ippolito, il duca Alfonso d’Este, a ornamento della sua biblioteca nel castello di Ferrara, realizzata nel 1573-1574 su progetto di Pirro Ligorio, poi precocemente disallestita con la devoluzione del 1598 di Ferrara allo Stato pontificio.
Da due schizzi di Ligorio si comprende che erme antiche erano poste al primo ordine della biblioteca, incastonate come gemme preziose, a mo’ di telamoni. Preziose copie romane degli originali greci sostenevano la trasmissione del sapere e delle conoscenze negli scritti e negli oggetti raccolti nella Libraria-Antichario. A questa biblioteca erano destinate le erme di Ravenna, se non fossero naufragate prima di giungere a Ferrara.
In ‘sembianze’ e in ‘parole’ la biblioteca di Ligorio per il duca Alfonso II, ispirata a quella di Caio Asinio Pollione, come descritta da Plinio, era stata concepita come un museo di antichità e di oggetti rari e preziosi, dove erano conservati, non libri a stampa, ma principalmente manoscritti, ed esposti gli antichi ritratti in marmo di poeti, storici e filosofi, collocati su telamoni integrati agli apparati architettonici di nuova invenzione.
L’antico si fondeva al rinnovato e aggiornato linguaggio dell’architettura, in una visione non solo ideale, ma storicizzata, in cui le fonti del pensiero occidentale, nelle sembianze degli antichi eroi e dei filosofi greci delle erme-telamoni si ponevano ab origine del sapere, al primo ordine e ne sostenevano la trasmissione. Sopra le erme, seguivano, al secondo ordine, i busti degli imperatori; l’esplorazione dell’antico si compiva, infine, da parte degli scrittori moderni nei manoscritti della biblioteca.
Il restauro, eseguito da ETRA e diretto dall’ISCR, attraverso una delicata e cauta pulitura ha rimosso i depositi, le incrostazioni e le resine in poliestere applicate nei restauri del secolo scorso che avevano fatto virare al giallo le superfici. Ha permesso inoltre di indagare le integrazioni dei restauri più antichi realizzati nel Cinquecento a Roma prima di inviare le erme a Ferrara, particolarmente evidenti nell’arcata sopraccigliare di Carneade e soprattutto nel blocco unico della barba, bocca e naso di Milziade con iscrizione, e ancor più visibili negli incavi realizzati con raspe e scalpello per farvi aderire altre integrazioni andate poi perdute in mare, come ad esempio i nasi di Epicuro e Dioniso.
Nei completamenti si concentrano le patinature cinquecentesche realizzate per rendere omogenee le parti nuove alle antiche, degenerate, a seguito del lungo contatto con l’acqua salata, in irreversibili macchie scure. La lunga permanenza in mare ne ha alterato la materia, rivestendo la superficie lapidea di incrostazioni, tra cui quelle delle conchiglie e delle altre tracce di faune marine colonizzate sulla superficie lapidea.
Antonella Ranaldi
Foto del dopo restauro: Paolo Bernabini (SBAP Ravenna)