Il cosiddetto Codice Isoldiano è una raccolta di rime, una sorta di antologia di poesia volgare di eccezionale ampiezza (393 testi) di genere, argomento e metro vari, dei principali rimatori del XIV-XV secolo, in prevalenza romagnoli ed emiliani.
Si tratta di un manoscritto di IX carte (cartacee), 9 (membranacee), 375 (cartacee), con numerazione antica a inchiostro, proseguita da una mano del XVII secolo, forse di Ovidio Montalbani (1601-1671), e integrata da un’altra mano moderna a matita.
Il primo quinterno in pergamena è mutilo della prima carta. Seguono fascicoli cartacei.
Sul recto e sul verso della carta 307 sono presenti rime su fogli incollati. Si possono inoltre osservare richiami verticali in fondo ai fascicoli.
Le carte sono state preparate con rigatura a secco, mentre il testo è disposto su una sola colonna e scritto da diverse mani, più o meno coeve.
Alle carte II-IX si trovano un’epistola dedicatoria a Giovanni Bentivoglio e l’indice dei capoversi delle rime. Il fascicolo iniziale membranaceo contiene la “Storia di Piramo e Tisbe” e apre la raccolta sotto il segno del “mal d’amore”. La vicenda, volgarizzamento di quella narrata da Ovidio, risulta adespota, e la mano che la copia è quella che scrive le Rime alle carte 141-152, 165-176. L’ipotesi secondo la quale Giovanni Sabadino degli Arienti, autore delle Porrettane, sarebbe stato il compilatore della raccolta e volgarizzatore del racconto ovidiano, è stata archiviata più recentemente per l’impossibilità di riconoscerne la mano, nonché per incompatibilità con la sua biografia. La novella si chiude al verso di carta 10, con un explicit scritto a inchiostro rosso.
Il compilatore della silloge pare essere mosso, più che dalla volontà di offrire un omaggio cortigiano ai Bentivoglio, dal desiderio di affidare alla memoria non solo l’esperienza poetica del passato, ma soprattutto la propria e quella di un gruppo di letterati in qualche modo coinvolti nell’allestimento del codice miscellaneo.
Nel codice è riscontrabile la presenza sparsa di Rime di Dante o a lui attribuite, ascrivibili a un unico copista, meno l’ultima.
Alle carte 310-311 si trova il “Catalogus poetarum in hoc opere contentorum”, forse di mano del possessore Isoldi.
Sono inoltre presenti postille filologiche, forse del bolognese Ovidio Montalbani (1601-1671), professore dell’Università di Bologna dal 1625, con interessi scientifici e letterari, che fu custode del Museo di Ulisse Aldrovandi e ne curò la Dendrologia. Le singole poesie sono introdotte da rubriche, prevalentemente latine, in rosso, mentre le iniziali e i segni di paragrafo sono scritti in rosso e blu alternati.
Sul recto della carta III compaiono diverse note manoscritte a inchiostro e prove di penna; sul verso della stessa è presente una nota manoscritta a inchiostro: “FRAGMENTARIO POETICO”.
Il manoscritto è conosciuto come Codice Isoldiano, in quanto appartenuto all’abate Giuseppe Isoldi, auditore del legato di Bologna, alla morte del quale il bibliofilo bolognese Giovanni Giacomo Amadei († 1768) lo acquistò. Intorno alla metà del XVIII secolo era stato posseduto da Prospero Malvezzi e precedentemente da Pier Jacopo Martelli († 1727) e da Ovidio Montalbani († 1671).
Amadei vendette poi la sua collezione di codici alla Biblioteca dell’Istituto delle Scienze, nucleo originario della Biblioteca Universitaria di Bologna, alla quale l’opera tuttora appartiene.