Il crocifisso, conservato dal 1982 nei depositi del Museo Nazionale d’Abruzzo nel Castello Cinquecentesco dell’Aquila, proveniente dall’abbazia di San Clemente a Casauria, appartiene a quella grande famiglia di opere misconosciute le quali, nonostante l’antichità e il notevole pregio artistico e storico, sono rimaste al di fuori di ogni considerazione critica e non compaiono nella letteratura specialistica.
L’alta qualità e la ricercata tecnica di esecuzione si fanno ancora apprezzare, malgrado la perdita quasi completa della policromia e di gran parte della preparazione.
Nei confronti di questa commovente reliquia del passato, si imponeva un processo di acquisizione alla coscienza comune che e il presupposto fondamentale della tutela. A ciò valga il recente intervento di restauro e una proposta di inquadramento storico-critico per una prima, pubblica segnalazione.
Gran parte del potere di suggestione, insieme all’aristocratica eleganza formale dell’imponente figurazione, risiede nel volto, in cui l’artista ha concentrato l’espressione dell’estrema sofferenza, nel momento in cui il Cristo esala l’ultimo respiro.
L’analisi dell’opera non si e potuta avvalere di notizie e documenti, risultati, allo stato attuale, inesistenti.
Un riferimento significativo, anche se non esaustivo, va al grande crocifisso della chiesa del Soccorso a L’Aquila, riferito a Giovanni Teutonico, apprezzato ‘facitore di crocifissi’ nell’Italia centro-settentrionale della seconda metà del Quattrocento, sul modello iconografico ‘tedesco’, risalente al ‘crocifisso gotico doloroso’.
Le innegabili corrispondenze nell’intonazione generale del discorso figurativo, non rimuovono le diversità nei particolari morfologici elementari, nei caratteri fisionomici e nei ricorrenti espedienti patetici, che contrastano con la sentita partecipazione emotiva con cui l’ignoto artista di San Clemente riesce a esprimere la sofferenza del suo Cristo con esiti personali di rara efficacia.
Ma alcune particolarità iconografiche e formali che conferiscono all’opera una spiccata nota di attualità, sono proprie del modello ‘fiammingo’ e portano il segno dei crocifissi napoletani coevi, emblematici di quella fondamentale congiuntura con l’arte fiamminga che orientò l’arte del Meridione nel corso del Quattrocento.
Ne consegue l’opportunità di una proposta di datazione sullo scorcio del XV secolo.
Elisa Amorosi
Foto dopo il restauro: Giovanni Bernardi (SBSAE Abruzzo)