Come spesso accade per le immagini cui viene attribuito potere taumaturgico, il crocefisso di Araceli vanta un’origine prodigiosa: secondo una tradizione, infatti, l’immagine sacra sarebbe giunta, ab antiqua, per via d’acqua, lungo il torrente Astico, a seguito di una rovinosa piena che distrusse l’antica chiesa di Santa Maria Maddalena di Forni, all’estremo confine nord della provincia berica. Miracolsamente approdato a Vicenza nel 1278, il crocefisso sarebbe stato raccolto sulle rive dell’Astichello, in prossimità dell’abbazia di San Vito, fuori borgo Santa Lucia, dove, nel 1206, si erano stabiliti i camaldolesi che ne furono i custodi e che, nel 1546, lo trasferirono prima nella nuova chiesa dei Santi Vito e Lucia e, nel 1857, presso la parrocchiale di Santa Maria di Araceli. In realtà i primi documenti che attestano l’esistenza della venerata immagine risalgono al XVII secolo e non una delle fonti locali antiche prima di quella data fa cenno alla presenza di un culto rivolto a questa sacra immagine. Soprattutto la mancata menzione del crocefisso da parte di uno storico attento come Barbarano, induce a credere che il culto sia andato consolidandosi solo dopo la metà del Seicento.
L’opera, ricavata da un unico massello in legno di pioppo, è pervenuta in buone condizioni conservative per una scultura lignea così antica, non presentando aggiunte o manomissioni del supporto. Il Cristo ha il capo leggermente reclinato verso la spalla destra, gli occhi chiusi, i capelli spioventi sulle spalle. Il volto barbuto si qualifica per una fisionomia essenziale piuttosto massiccia. Il busto, quasi perfettamente frontale, mostra il costato fortemente segnato, le braccia sono allineate su una rigida linea orizzontale e i piedi giustapposti sono fermati da un unico chiavello. L’opera presenta una vicenda critica molto scarna: riferito all’ambito «bizantino» e ritenuto «forse il più antico che sia in città» (G. De Mori, Chiese e chiostri di Vicenza, Vicenza 1928, p. 111), il crocefisso è stato genericamente ricondotto al secolo XIII dalla locale storiografia otto e novecentesca. Il primo approccio critico si deve ad Arslan (W. Arslan, Catalogo delle cose d’arte e di antichita d’Italia. Vicenza. Le Chiese, Roma 1956, p. 3), il quale riferisce la scultura alla metà del XIII secolo, non ritenendola lontana dal 1278, epoca in cui dovrebbe essere prodigiosamente giunta a Vicenza. ≪E il tipo del Cristo sereno, dominatore della morte, comune al XIII secolo, con perizoma abbondante ed esuberante, derivato dalla scultura francese del primo Duecento≫. Influenzata dall’utimo periodo di Antelami, la scultura, secondo Arslan, sembra rivelare tuttavia nel flusso delle pieghe del perizoma un carattere ≪nettamente gotico ≫. Definita ≪opera rustica≫, la scultura vicentina documenterebbe ≪il diramarsi nella prealpe veneta, a opera di modesti intagliatori, dei modi antelamici≫. Solo in tempi recenti Luca Mor (L. Mor, Il crocefisso trecentesco della pieve di Sant’Andrea di Bigonzo e alcune segnalazioni tra Veneto e Friuli, in Crocefissi lignei a Venezia e nei territori della Serenissima, 1350- 1500. Modelli diffusione restauro, a cura di E. Francescutti, atti del convegno internazionale (Venezia, Gallerie dell’Accademia, 18 maggio 2012), Padova 2013, pp. 47-59) è tornato sull’argomento con una puntuale segnalazione, evidenziando l’importanza e la rarita del crocefisso di Araceli nel panorama veneto. Pur alterato da grossolane ridipinture e da parziali rimodellazioni, lo studioso individua nel crocefisso alcune caratteristiche tecniche che qualificano l’opera sotto il profilo stilistico. La ≪salda semplificazione tecnica e formale di natura spiccatamente arcaizzante≫, riconoscibile nel mezzorilievo che connota l’esecuzione del torso e la sagoma del corpo lievemente spezzata, richiamano a ≪soluzioni tardoromaniche di derivazione sveva o svevostiriana adottate spesso nei crocefissi lignei dell’alto adriatico e delle Alpi centro orientali≫. Il crocefisso di Araceli si rifà dunque a una tradizione arcaica cui rimanda anche la calotta rilevata della testa che, come ha confermato l’incisione emersa con evidenza dopo il restauro lungo la circonferenza del capo, doveva accogliere in origine un’alta corona metallica, ispirata a una tipologia derivata dalle immagini di Cristo delle croci limosine. Accanto a questo substrato arcaico sono state individuate soluzioni iconografiche rivelatrici di un aggiornamento su modelli piu progrediti, che hanno indotto a proporre una datazione attorno alla fine del Duecento.
Il crocefisso in sostanza viene ricondotto nell’ambito di una attardata cultura di terraferma, meglio individuabile in area pedemontana veneta o prealpina, che tenta di innovare la propria radice figurativa arcaica, tuttavia ≪connesso a un contesto meno colto rispetto al crescente fervore gotico dei centri di pianura≫. La lettura proposta ha trovato significativi riscontri dopo l’impegnativo recupero che ha offerto l’occasione per alcune precisazioni e nuovi spunti di riflessione. Il restauro ha rivelato infatti che l’immagine, coperta da almeno cinque ridipinture, a testimonianza del suo assiduo uso cultuale, e stata interessata da un importante intervento che ha comportato significative alterazioni, riconducibile verosimilmente al Quattrocento. Si tratta probabilmente di una sorta di ammodernamento che ha interessato in forma piu evidente il perizoma che in origine copriva entrambe le ginocchia: accorciato e rimodellato esso ha assunto quel carattere ‘gotico’ gia rilevato da Arslan. Se da una parte il restauro ha confermanto alcune peculiarità tecnico-stilistiche che richiamano a una cultura arcaizzante, d’altro canto sono emersi elementi che portano a ridimensionare la portata dell’aggiornamento stilistico messo in luce. Sia il corto e mosso perizoma, sia l’accentuazione drammatica che si evidenzia anche nel fiotto di sangue che sgorga dalla ferita del costato, infatti, non fanno parte dell’assetto originario, come finora ipotizzato, ma si devono all’intervento quattrocentesco. Un discorso a parte merita la croce che in origine era dipinta su ambo i lati con bande colorate, e che presentava alle estremità quattro tabelloni intagliati ad altorilievo con i simboli evangelici del tetramorfo. Nel 1546 la croce subì una grave mutilazione per poter essere adattata alla nuova cappella cui era stata destinata nella chiesa dei Santi Vito e Lucia. Eliminata alla sommità l’Aquila e asportate per la gran parte le figure del Leone e del Toro poste sui laterali, rimase in loco unicamente la figura dell’Angelo, all’estremità inferiore della croce. Sul finire degli anni Cinquanta del Novecento, l’artista vicentino Bruno Vedovato ripristinò le parti mancanti integrando con intagli in stile neoromanico i simboli evangelici. Il restauro della croce ha rivelato un manufatto gravemente compromesso ma di notevole interesse che si qualifica per alcune caratteristiche tecniche e stilistiche in base alle quali sembra potersi suggerire una datazione all’inizio del Trecento. Uno degli aspetti di maggior interesse e novita, tuttavia ancora di difficile decifrazione, è la traccia, posta sul recto della croce, di un intaglio, forse ad altorilievo, che è stato grossolanamente rimosso in epoca antica, non meglio precisabile. È stato possibile riconoscere sul braccio destro la frammentaria figura di un animale con corna, forse un ariete, e, nel segmento superiore della croce, una struttura ramificata affine a quella rilevata sul braccio sinistro. L’attento lavoro di recupero e osservazione consente di affermare che la croce è un manufatto antico, ma non pertinente al crocefisso e che i due pezzi furono verosimilmente assemblati in epoca remota, prima del 1546, quando, come si è ricordato, la croce venne adattata alla nuova collocazione. Le dimensioni del Cristo, d’altra parte, non sono compatibili con quelle della croce che appare sottodimensionata: le braccia, infatti, si sovrappongono ai tabelloni laterali e il suppedaneo, ricavato nello stesso massello del crocefisso, è stato tagliato e adattato per evitare la sovrapposizione all’Angelo. Il restauro ha consentito dunque di recuperare due distinte opere che si qualificano tra le rarissime testimonianze supestiti di scultura lignea del XIII e XIV secolo del territorio di Vicenza. In un panorama poverissimo di testimonianze lignee di epoca medioevale, il Crocefisso viene a costituire un sicuro punto di riferimento per gli studi, configurandosi come espressione di una cultura di terraferma che risente di un’antica e colta tradizione che sopravvive ormai solo nelle consuetudini tecniche di lavorazione e, d’altra parte, sembra riflettere una cultura periferica che, sul finire del Duecento, in virtù della posizione geografica di Vicenza e delle frequentate vie di comunicazione con il nord, rispetto al più aggiornato ambiente dell’area padana sembra privilegiare i rapporti con i territori d’oltreconfine.
Chiara Rigoni