La tela è registrata per la prima volta nella guida del Celano (1692) tra i quadri presenti nella sagrestia della chiesa dei Girolamini, luogo deputato all’esposizione dei dipinti fin dai primi decenni del Seicento, con attribuzione a Luca Cambiaso, confermata poi dal Sigismondo (1788). Come per molti altri dipinti della Quadreria dei Girolamini, anche in questo caso le ricerche negli archivi volte a individuare la provenienza dell’opera sono risultate vane; il Cristo, ignorato da tutte le guide ottocentesche, riappare direttamente nell’Inventario della Chiesa e Convento dei Gerolomini, redatto da Federico Pfister nel 1932, al n. 123; è segnalato “nell’ingresso alla sagrestia”, da identificare con il passetto che dalla cappella di San Filippo, posta a sinistra dell’altare maggiore, conduce appunto alla sagrestia; per quanto riguarda lo stato di conservazione viene così descritto: “cons. Mediocre – colori disseccati – sporchi – screpolature”; nella sezione dedicata alle basi storiche e attributive, si legge: “attribuito dal Celano a Luca Cambiaso; trattasi forse di copia da questo artista, certamente è opera della sua scuola genovese. Circa 1600. Interesse artistico ragguardevole”.
Nel 1952, in un verbale ritrovato fra le carte d’archivio, il dipinto, ascritto a “Vitale?”, veniva ritirato dall’allora Soprintendenza alle Gallerie della Campania, insieme ad altri trentatré dipinti, per essere sottoposto a un intervento di restauro; nella foto allegata al verbale (Archivio fotografico Polo Museale Campania neg. N. 10945 del 20 settembre 1952) compare invece per la prima volta il nome di Cesare Fracanzano, attribuzione formalizzata poi nel 1955 da Ferdinando Bologna.
L’attività di Cesare, prevalentemente legata alla committenza religiosa, con dipinti devozionali e spesso ripetitivi, si svolge incessantemente tra Napoli e le Puglie, soprattutto Barletta e Conversano.
La sua formazione tardomanierista tra Ippolito Borghese e Fabrizio Santafede rappresenta un bagaglio culturale facilmente ravvisabile in tutta la sua prima produzione, come nei teloni dell’Episcopio di Barletta o nella Sacra Famiglia, firmata, e nell’Educazione della Vergine nella chiesa di San Gaetano, sempre a Barletta. Trasferitosi a Napoli, frequenta, come ricorda il De Dominici, la bottega del Ribera, ma la sua adesione al naturalismo caravaggesco appare più un esercizio accademico che una vera partecipazione a quel movimento, evidente nel San Giovanni Battista del Museo di Capodimonte o nella Pietà del Pio Monte della Misericordia. Il pittore mostra invece particolare propensione verso soluzioni pittoriche legate alle correnti vandychiane che investono Napoli intorno al 1635. Una maniera dolce e pastosa dalla calda cromia, una decisa propensione per un accentuato uso della luce e del colore, una marcata tendenza verso modelli classicisti desunti dal Reni e dallo Stanzione caratterizzano tante opere dell’artista nel terzo e quarto decennio del Seicento, come il San Michele arcangelo della certosa di San Martino, la Sant’Elena della chiesa di Santa Maria di Nazareth a Barletta e il nostro Cristo legato che è, forse, il risultato più alto della sua produzione differenziandosi dalle opere più note, probabilmente più eclettiche ma anche più deboli.
Nel viso dell’angelo a destra è possibile riconoscere i tratti fisionomici tipici della modella sovente utilizzata dal pittore, identificata dal De Dominici nella moglie stessa di Cesare, quella Beatrice Covelli “giovane di onorato parentado ma scarsa di beni” che egli sposa a Barletta nel 1626; i tratti di Beatrice, o comunque del tipo femminile più ricorrente nella produzione del maestro, si ritrovano infatti nella Sant’Elena della chiesa di Santa Maria di Nazareth a Barletta e nella Maddalena della chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, oltre che nell’Immacolata della chiesa di Santa Maria della Speranza sempre a Napoli.
L’intervento di restauro, deciso a seguito della constatazione di importanti problemi di natura strutturale che rischiavano di compromettere la stabilità della materia pittorica, ha consentito non solo di migliorare l’aspetto estetico dell’opera ma anche, e soprattutto, di garantirne la stabilità materica azzerando i rischi di sollevamento e di indebolimento della pellicola pittorica.