La coppa è in vetro verde chiaro trasparente e ha corpo emisferico. È decorata, sulla parete convessa, da un’incisione raffigurante Daniele nella fossa dei leoni (lacus leonum). Il profeta è giovane, ha il volto imberbe, gli occhi grandi, una folta capigliatura riccia e indossa un mantello panneggiato. Lo si vede fuoriuscire da un contenitore troncoconico ed è colto nella tipica postura dell’orante, con le braccia flesse rivolte al cielo e le mani, lunghe e sottili, tese in alto. Ai lati del santo compaiono due leoni simmetrici, accovacciati sulle zampe posteriori, con le fauci spalancate. A destra di Daniele si leggono degli arbusti.
Questo prezioso capolavoro dell’arte vetraria, che doveva avere una destinazione funeraria, fu rinvenuto nell’Ottocento a Concordia Sagittaria (l’antica colonia romana di Iulia Concordia) in prossimità di un sepolcreto. L’artista che lo realizzò si identifica con il cosiddetto Maestro di Daniele: era un incisore di grande qualità, collegato a un atelier di Roma attivo nella seconda metà del IV secolo d.C. che produceva vetri su richiesta di una raffinata élite pagana ed ecclesiastica. Si suppone che la coppa sia stata commissionata da un ricco cittadino di Concordia o da un rappresentante della chiesa locale, forse lo stesso vescovo.
La scena raffigurata narra un famoso episodio della vita di Daniele. Il giovane profeta fu deportato in Babilonia alla fine del VII secolo a.C.; condannato a essere gettato nella fossa dei leoni per essere rimasto fedele al suo Dio e, una seconda volta, per aver ucciso il serpente idolatrato dai Babilonesi, egli rimase illeso grazie all’intervento divino. Il soggetto conobbe un’ampia diffusione nell’iconografia paleocristiana, connettendosi alle tematiche soteriologiche e escatologiche, relative cioè alla salvezza e al destino dell’uomo.
Molto singolare è il modo in cui è rappresentato nel vetro il lacus. Il termine latino, tradotto nel linguaggio ecclesiastico come “fossa”, indica una cisterna, un “contenitore” per la raccolta dell’acqua, oppure del vino, dell’olio, del grano: è sulla base di questo significato che, a partire dalla metà del IV secolo d.C., in alcune raffigurazioni si vede il profeta fuoriuscire da un recipiente, come nel caso della coppa concordiese. Ma la resa del lacus come “contenitore” potrebbe derivare dalla contaminazione dell’iconografia di Daniele con un soggetto appartenente alla tradizione mitologica pagana: si tratta della terza fatica d’Ercole, in cui l’eroe consegna il cinghiale catturato a Euristeo, re di Tirinto e di Micene, il quale, spaventato, si nasconde in una giara infissa a terra.
La coppa, giunta in sette frammenti, era stata ricomposta in un precedente intervento di restauro e l’ampia lacuna che presentava sul fondo era stata integrata con plexiglas. In alcuni punti della superficie il vetro si presentava cromaticamente alterato. Le fratture e il deterioramento del collante impiegato ostacolava la lettura della raffigurazione.
Si è proceduto con lo smontaggio. Mediante l’impiego di acetone, il vecchio collante si è ammorbidito ed è stato asportato meccanicamente con bisturi. Per l’incollaggio è stata utilizzata resina epossidica. La medesima resina, opportunamente colorata e sagomata, è stata impiegata per le lacune sul fondo e sull’orlo.
Redazione Restituzioni