Questa piccola icona proviene dal Tesoro di San Marco e si ispira alla celebre e veneratissima icona della Madonna Nicopeia, esposta nella basilica di san Marco sull’altare di san Giovanni, a sinistra del maggiore. La Madonna Nicopeia (“apportatrice di Vittoria”) è tradizionalmente considerata una delle icone dipinte da san Luca evangelista, si caratterizza per il Figlio in grembo e la posizione frontale di entrambe le figure. Giunse con tutta probabilità a Venezia nel XIII secolo, forse come bottino di guerra del sacco di Costantinopoli, di cui per fama e significato simbolico dovette senz’altro essere considerata uno degli oggetti più preziosi. Da allora è oggetto di devozione e venerazione ininterrotta.
Dell’icona marciana, probabilmente a motivo delle altissime valenze religiose e simboliche rappresentate, si conoscono soltanto due copie. E forse per il pessimo stato di conservazione e le conseguenti difficoltà di lettura, quella del Tesoro di San Marco è quella che sino ad oggi meno ha suscitato gli interessi degli studiosi. Tuttavia, grazie al recente restauro emergono elementi utili ad una sua rivalutazione storico-artistica. Si pensa che la tavola sia stata realizzata nella seconda metà del XIV secolo a Venezia, per ricordare ai visitatori del Tesoro l’aspetto originale della Nicopeia, alla quale poco tempo prima era stata congiunta una cornice di smalti bizantini. Essa figura nel catalogo del Cicognara (1816-1820) che, pur non descrivendola che sommariamente, ce ne fornisce esattamente le misure; meno precise sono invece le citazioni nei cataloghi precedenti in cui sembra tuttavia di poter ritrovare l’icona già a partire da quello del 1325. La pittura è di produzione veneziana e di ottima qualità. Rientra nella tradizione pittorica di matrice bizantina alla quale si devono numerose coeve tavole dipinte. Dal confronto con la produzione della bottega di Paolo Veneziano, pittore tra i più imporranti nella Venezia del Trecento, sembra di poter ricondurre l’icona a un autore della seconda metà di quel secolo che ben conosceva l’esperienza maturata dal Maestro e ne aveva sviluppato le ricerche. Per la riza, ovvero il rivestimento in lamine d’argento dorato, le tecniche d’esecuzione e i moduli figurativi rimandano invece alla produzione del cosiddetto ‘Maestro del serpentino’, il cui ambito cronologico conferma anche per la camicia la datazione alla seconda metà del XIV secolo.
L’opera si presentava in un pessimo stato di conservazione, dovuto sia all’esposizione prolungata nel luogo di culto, con i suoi fumi e le sue cere, sia al discutibile ‘restauro’ ottocentesco da parte fratelli Favro, che integrarono la lacuna nel lato inferiore della riza con un gallone in seta e argento dorato e fissarono la camicia alla tavola con chiodi in ferro.
Il restauro ha richiesto cure e professionalità distinte per i tre elementi che costituiscono l’icona (tavola, camicia e gallone), ne ha evidenziato la fragilità e ha fatto emergere l’incompatibilità dell’umidissimo ambiente espositivo con le urgenze della conservazione. La coperta è stata sottoposta a specifici trattamenti per la rimozione delle sostanze grasse e cerose e dei solfuri d’argento, il gallone è stato ripulito e consolidato, mentre sulla tavola l’intervento si è limitato al consolidamento della pittura e all’integrazione ad acquerello sulle aree oggetto di stuccatura.
Redazione Restituzioni