Nel 1572 Paolo Veronese realizza la grande tela per i Servi di Maria insediati dal 1435 a Monte Berico, il santuario più celebre del vicentino, meta di culto mariano ininterrotto dal 1426, quando qui ebbe luogo una apparizione della Vergine. Unica cena del Caliari ancora conservata nella sua ubicazione originaria, l’opera rappresenta il tema della carità ospitale secondo quanto narrato nella Legenda aurea, dove si narra che papa Gregorio Magno invitò alla sua mensa dodici pellegrini e, con sorpresa, scoprì in uno di essi la presenza di Cristo stesso. La scena, strutturata in un ambiente dalle coordinate palladiane, con un gioco teatrale tra i più efficaci, pone al centro proprio il momento del divino svelamento. Il dipinto è datato dal pittore stesso e un documento settecentesco, copia delle perdute memorie cinquecentesche del convento, ricorda il pagamento per la tela. Poco prima, tra il 1570 e il 1572, Veronese realizza un’altra grande tela raffigurante la Cena in casa di Simone per il refettorio della chiesa dei Servi di Maria a Venezia, analogamente descritta in uno spazio strutturato da colonne corinzie ed edifici all’antica sullo sfondo.
Nel XIX secolo la storia di questa grande tela si intreccia con le vicende della città di Vicenza: rimossa nel 1811 nel corso delle spoliazioni napoleoniche e inviata a Milano, dove è esposto tra i capolavori scelti per arricchire la Pinacoteca di Brera, ritorna a Vicenza nel 1817. Durante la prima guerra d’Indipendenza il 10 giugno 1848 il convento di Monte Berico viene saccheggiato dagli austriaci e la tela viene lacerata in 32 pezzi. Grazie a una attenta ricostruzione e a un successivo restauro ad opera di Andrea Tagliapietra, professore all’Accademia di Venezia, il dipinto viene recuperato e ritorna nel refettorio di Monte Berico nel 1858.
La relazione pubblicata da Gino Fogolari nel 1918 sulla messa in sicurezza delle opere d’arte durante gli eventi bellici attesta il ricovero della tela prima al Museo Civico di Vicenza poi presso il deposito del convento di San Salvi a Firenze, dove viene trasportata a partire dalla primavera del 1916 insieme ad altri capolavori cittadini. Tra gli interventi conservativi più recenti è documentato un ritensionamento della tela sul telaio nel 1931 e, infine, il restauro di Antonio Lazzarin del 1973, che comprende la rimozione dei ritocchi ottocenteschi e una seconda foderatura: per l’occasione, il dipinto è esposto alla mostra dedicata ad Andrea Palladio in corso, quell’anno, all’interno della Basilica Palladiana.
L’intervento di restauro ha avuto inizio con una approfondita ricognizione della storia conservativa attraverso la ricerca documentaria e lo studio della tecnica esecutiva. Tra gli obiettivi primario è stato quello di chiarire attraverso la lettura comparata delle immagini dipinte e le immagini fotografiche, quali sono state le aree interessate da variazioni per interventi successivi alla composizione dell’opera e ricostruire una storia il più possibile puntuale delle vicende conservative del dipinto.
Questi elementi di conoscenza, insieme alle indagini fisiche condotte dal laboratorio di diagnostica per immagini della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona Rovigo e Vicenza e da Davide Bussolari, Diagnostica per l’arte Fabbri e alle analisi chimiche svolte da Stefano Volpin (laboratorio scientifico delle Gallerie dell’Accademia di Venezia) e da Antonella Casoli (Dipartimento di scienze chimiche, della vita e della sostenibilità ambientale, Università degli studi di Parma), sono stati strettamente funzionali alle scelte alla base dell’intervento di restauro.
Il grande telero è realizzato mediante la cucitura di quattro fasce di tessuto di lino con quella superiore suddivisa in tre pezzi. Il colore è stato steso a pennello, impastato con olio di lino su una preparazione molto sottile composta da gesso e colla.
I pigmenti sono tutti caratteristici della tavolozza del pittore: la malachite e l’azzurrite che predilige, l’orpimento, il vermiglione e le lacche rosse, ma anche colori di natura vetrosa come il giallo di piombo e stagno di tipo II e lo smaltino.
Sopra al film pittorico originale, le indagini chimiche hanno rilevato uno spesso strato di vernice terpenica, alterata ma anche pigmentata, e ritocchi impastati con la medesima resina stesi su campiture di fondo realizzate a tempera con colla animale ed ampie stuccature in gesso e colla, interventi sicuramente risalenti al 1973.
Le indagini preliminari non distruttive (fluorescenza ultravioletta, riflettografia infrarossa e radiografia a raggi x), hanno rilevato i reali danni subiti durante i moti indipendentisti del 1848 e gli esiti della ricomposizione effettuata qualche anno dopo dal pittore veneziano Andrea Tagliapietra e precisato l’effettiva entità dell’intervento integrale realizzato nel 1973 da Antonio Lazzarin. Le alterazioni dei diffusi ritocchi, gli ampi sbiancamenti che rendevano a macchie la lettura della rappresentazione, nonché la presenza di notevoli quantità di composti del cloro nella sola vernice terpenica di restauro superficiale, rilevata grazie alle indagini chimiche, hanno concorso a definire il nuovo intervento di recupero della cromia della superficie dipinta.
In accordo con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona Rovigo e Vicenza, è stata eseguita una pulitura graduale e selettiva con la rimozione della vernice, dei ritocchi, delle velature a tempera e delle stuccature del 1973, per far riemergere la gamma cromatica vivace distintiva di Paolo Veronese, la combinazione di luci e ombre, la giustapposizione delle campiture di colore e distinguendo anche le singole pennellate, ora particolarmente apprezzabili sui volti e sui panneggi. Sono state visionate e documentate le differenti cuciture delle tele, quelle originali di costruzione e quelle di riassemblaggio dell’intervento di Tagliapietra del 1852, così come si è valutata l’incongruità di alcune ricostruzioni delle vesti, velature eccessivamente coprenti in corrispondenza dei volti, delle quali è stata poi decisa la rimozione.
Le numerose lacune della pellicola pittorica ricolmate con stucco, le diffuse abrasioni integrate sia a velatura che a tratteggio sulle parti di ricostruzione non modulare, hanno richiesto un lungo periodo di lavoro.
Il restauro, sostenuto da Intesa Sanpaolo in occasione dei 30 anni del programma Restituzioni, iniziato ad ottobre 2019, è stato svolto dalle restauratrici specializzate Valentina Piovan, Micaela Storari, Annalisa Tosatto, Carlotta Dal Santo, Serena Battistello. La delicata movimentazione e l’approntamento del cantiere in loco sono state progettate e svolte dalla ditta Uni.S.Ve. srl, mentre la documentazione fotografica delle fasi lavorative è stata prodotta da Valter Maino, Stefano Baldin e Matteo De Fina.
L’occasione del restauro ha permesso una riflessione intorno a un dipinto molto noto fin dalle fonti seicentesche, la cui storia, tuttavia, non è stata mai organicamente ricostruita. L’approfondimento critico e materiale delle sue vicende conservative è stato possibile grazie allo studio e alle analisi svolte nell’ambito di Restituzioni, consentendo di enucleare aspetti scientifici del tutto nuovi, insieme al ritrovamento di dati archivistici finora inediti.
Francesca Meneghetti e Valentina Piovan