La piccola cassetta-reliquiario (capsella), in argento, di forma ovale, è preziosamente decorata a sbalzo (ovvero modellata a rilievo, martellando dal rovescio la superficie). Le scene sono a carattere cristiano e contenuto altamente simbolico.
Su un lato sono raffigurate otto pecore (simbolo del collegio degli apostoli), le quali escono da due edifici basilicali (allusione alle città di Betlemme e di Gerusalemme, ma anche ai popoli ebraico e pagano, oggetto della predicazione evangelica) e si dirigono verso l’agnello centrale sormontato da una croce (Cristo). Sull’altro fianco, tra due palmizi, due cervi (i fedeli) si abbeverano ai quattro fiumi sgorganti dal monte paradisiaco, sulla cui sommità è posto il monogramma di Cristo, le lettere greche X e P sovrapposte (Gesù come fonte dell’acqua viva, che lava dal peccato e dona la salvezza).
Sul coperchio a bauletto è rappresentato il martire di cui la cassetta doveva conservare le reliquie: egli ha le sembianze di Cristo ed è posto sopra il monte paradisiaco da cui scaturiscono quattro fiumi, tra due candelabri con i ceri accesi; sorregge una corona vegetale (simbolo del martirio, di vittoria e di premio ultraterreno), mentre un’altra corona gli viene collocata sul capo da una mano divina che esce dalle nubi.
Le scene sui lati e sul coperchio sono bordate da cordonature a treccia. Il fondo è riferibile a un restauro moderno.
Il prezioso argento, denominato Capsella Africana, fu ritrovato nel 1884 a Henchir Zirara, in Numidia (odierna Algeria), negli scavi di una basilica paleocristiana, sotto il piano pavimentale antico a mosaico. Nel 1888 fu donato a papa Leone XIII dall’arcivescovo di Cartagine Charles Lavigerie, entrando così nelle collezioni vaticane.
La produzione della capsella è attribuibile a una bottega argentaria attiva in Africa, probabilmente nella stessa Numidia, poiché alcuni particolari iconografici, quali il motivo dei due candelabri e l’assimilazione della figura del martire con quella di Cristo, rinviano all’ambiente e ai culti africani.
Per quanto riguarda la datazione, l’ipotesi più convincente inquadra l’oggetto tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C.; poiché alcuni tratti dell’opera (come la plasticità della capigliatura del martire) rimandano a periodi precedenti, si è più propensi ad indicare una cronologia ancora compresa nello scorcio del V secolo.
Dopo una fase diagnostica il reperto, che presentava depositi e uno scurimento delle superfici dovuto al processo di ossidazione del metallo, è stato sottoposto a pulitura. Sono stati utilizzati batuffoli con acqua deionizzata e bicarbonato di sodio; gli strati più scuri e tenaci sono stati ammorbiditi con impacchi del complessante EDTA. Dopo lavaggi in acqua deionizzata e il pezzo è stato disidratato. Il recipiente e il coperchio presentavano cricche e lesioni, lungo le quali sono state effettuate delle infiltrazioni di resina epossidica opportunamente pigmentata. Infine l’opera è stata protetta con vernice nitrocellulosica.
Redazione Restituzioni