Il recente restauro della pala d’altare raffigurante la Beata Rita da Cascia, nel contesto della XIX edizione di Restituzioni, ha contribuito nel riportare alla luce un’opera di precoce qualità e grande rilevanza per gli studi, poiché tradizionalmente ritenuta una delle prime attestazioni pubbliche di Simone Cantarini, detto il Pesarese. Il dipinto si trova all’interno della monumentale chiesa di Sant’Agostino a Pesaro, a pochi passi dal luogo natio del pittore.
L’avvio della sua carriera artistica va inteso nell’ambito del precoce rapporto con gli agostiniani, un legame che si rivelerà complesso e stratificato, come testimoniato dalle commissioni scalabili negli anni successivi (Madonna della cintola, San Tommaso da Villanova). Il dipinto ha patito storicamente condizioni di scarsa leggibilità, imputabili sia alle vicende conservative sia ad alcune caratteristiche intrinseche dell’opera, come il particolare effetto di rifrazione della luce sull’imprimitura ombrosa del fondo, divenuta preponderante a causa dell’assottigliamento della pellicola pittorica. Dalle indagini di restauro è stato possibile confermare alcune manomissioni occasionali, forse un possibile riadattamento della tela nel quadro della mutata configurazione architettonica del complesso, avvenuta nella seconda metà del Settecento.
L’opera va ascritta alla fase giovanile del pittore (1629 o 1630), nel periodo antecedente l’avventura bolognese presso l’atelier di Guido Reni, mentre un termine post quem plausibile potrebbe essere il 1640, in relazione a una presunta donazione per l’altare avvenuta in quell’anno. L’episodio proposto si riferisce al ferimento della “spina”, un momento cruciale dell’agiografia relativa alla santa di Roccaporena, beatificata da Urbano VIII con breve pontificio del 2 ottobre 1627. L’opera si caratterizza per l’intima e quieta intensità che traspare nell’atmosfera raccolta e soffusa. Nonostante il marcato accento devozionale, tradotto nella formula rigorosa ed essenziale dei pochissimi elementi rappresentati, l’insieme non risente di eccessiva rigidità, poiché stemperato dalla profonda umanità della beata nel misurato equilibrio gestuale. Sulla candida tovaglia della mensa d’altare, svetta l’intenso brano naturalistico del Crocifisso, in netto contrasto con l’esile materia che compone la struttura della base. La parte sommitale dell’opera rivela l’afflato sentimentale di Simone, nel cielo squarciato dalla luce e animato da presenze angeliche che rivelano grazia spontanea ed estrema raffinatezza formale. Si registrano nel dipinto alcune assonanze verso l’accesa componente neoveneta derivata da Claudio Ridolfi, mentre ulteriori spunti di confronto sono stati evidenziati in direzione del naturalismo romano mediato da figure quali Orazio Gentileschi e con maggiore tangenza da Giovanni Francesco Guerrieri, entrambi attivi nelle Marche. L’opera manifesta caratteri di incredibile autonomia stilistica, che evidentemente Cantarini aveva già affinato in questi primissimi anni di carriera. Il sottile equilibrio cromatico nei passaggi tonali e gli originali rapporti luministici, che nel tempo erano andati abbassandosi, sono stati finalmente svelati dal restauro che ha permesso di riconoscere a pieno nell’opera lo snodo fondamentale, all’avvio di una clamorosa quanto effimera parabola artistica nel panorama del Seicento italiano.