L’Arco trionfale del doge Nicolò Tron è un’opera dichiaratamente celebrativa, situabile nel contesto veneziano di secondo Quattrocento.
L’immagine è di tipo allegorico: non vuole “narrare” una storia, ma trasmettere un messaggio tutto da decifrare. Il messaggio è qui affidato a un gruppo di cinque putti che, disposti intorno a un arco trionfale marmoreo, sostengono gli stemmi del doge Nicolò Tron (nella parte alta dell’arco) e dei magistrati presso il cui ufficio, la Magistratura del Cattaver, l’opera doveva collocarsi. L’inserto di un’iscrizione latina nella parte superiore dell’arco chiarisce la natura retorica dell’opera, che vuole riferirsi a una concreta situazione storica: l’elezione del doge Tron. Ne consegue una celebrazione della Repubblica veneziana, garantita dal riferimento ai funzionari statali – i fidi magistrati –, le cui iniziali sono incise sulla base dello stesso arco.
La presunta collocazione originaria presso la Magistratura del Cattaver non è mai stata messa in dubbio, se pure le fonti coeve non ne facciano diretta menzione. Risulta invece documentata la storia più recente, successiva alle soppressioni napoleoniche, quando l’opera viene incamerata dallo Stato e spostata nei depositi di Palazzo Ducale, per entrare solo nel 1890 nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
L’attribuzione dell’opera ad Alvise Vivarini è un dato acquisito alla fine degli anni Sessanta del Novecento, sulla scia di Roberto Longhi e Federico Zeri. Nel passato, infatti, sono stati proposti altri nomi, da Lazzaro Bastiani a Marco Zoppo passando per Gregorio Dalmata e Bartolomeo Vivarini, fino a Giovanni Bellini e alla sua bottega. Il confronto stilistico con altre opere di Alvise (in particolare alcune tavolette conservate presso l’Accademia Carrara di Bergamo) torna tuttavia a confermare l’attribuzione longhiana, per alcune analogie nel modo di dipingere il paesaggio e la peculiare resa anatomica dei putti.
Il restauro, grazie alle indagini riflettografiche e stratigrafiche, ha messo in luce alcuni significativi aspetti della tecnica esecutiva, come la stesura del colore su tela a trama fitta e sottile e l’elaborato disegno preparatorio, delineato con tratti incisi e segni più leggeri a pennello. E’ inoltre apparsa alla destra dell’arco, in basso, un’antica iscrizione di cinque lettere, purtroppo illeggibile.
L’intervento ha permesso di individuare almeno due restauri precedenti: il più recente, riconducibile a Guglielmo Botti (1892), consisteva in una patinatura stesa per armonizzare alcune discontinuità pittoriche, scuritasi a causa dell’ossidazione della vernice; il precedente è risultato ancor più invasivo. In questa occasione, infatti, il dipinto subì pesanti ritocchi e, soprattutto, una pulitura effettuata con un solvente aggressivo che aveva impoverito e abraso la superficie pittorica. E’ stata quindi necessaria la rimozione delle patinature e ridipinture e l’assottigliamento delle vernici di restauro. Sono state infine ricucite le velature abrase e colmate le lacune, restituendo all’opera una più corretta lettura dei valori cromatici.
Redazione Restituzioni