L’ara proviene dalla collezione del Patriarca Giovanni Grimani e fu conservata inizialmente nel palazzo di Santa Maria Formosa. In seguito il pezzo fu utilizzato come base per una delle sei statue poste al centro dell’Antisala della Libreria di San Marco a Venezia, sede dello Statuario Pubblico. L’ara mantenne questa funzione ausiliaria, di elemento decorativo, anche quando nel 1926 fu spostata nel Museo Archeologico Nazionale, dov’è tuttora. È composta da una base quadrangolare con zoccolo e cimasa sporgenti, riccamente decorati da elementi vegetali stilizzati o geometrici. Integrazioni d’epoca forse rinascimentale testimoniano aggiustamenti e interventi di risistemazione. Adeguamenti successivi devono aver prodotto la perdita di un’iscrizione attestata da vari documenti fino al XVIII secolo: HIC LOCUS/SACER EST. Di particolare interesse i soggetti scolpiti a bassorilievo sulle quattro facce. Sulla faccia frontale, che doveva riportare l’iscrizione, sono raffigurati un Satiro e una Menade nudi, colti in un momento di intima complicità, e affiancati da un altro Satiro che tiene con la mano sinistra un poculum (contenitore, vaso) per il vino. Nella scena successiva un altro (o lo stesso?) Satiro in tortuoso equilibrio si china a baciare con passione una Menade seduta su una roccia coperta da un drappo. Gli stessi protagonisti si ritrovano nel bassorilievo dell’altra faccia lunga: semisdraiato, con le gambe coperte dal mantello, il Satiro alza la mano destra e tiene con la sinistra il tirso e la coppa per il vino, mentre la Menade vestita con il chitone e l’himation suona il trigonum (piccola lira). A fare da sfondo alla scena un vaso ad alte anse (oinochoe) che poggia su un pilastro, decorato con elementi vegetali stilizzati, dove è appeso anche un pinax (quadretto votivo) con maschera bacchica. Nell’ultimo bassorilievo il Satiro in piedi poggia il braccio sinistro sulle spalle di una Menade seduta con la lira appoggiata alla gamba sinistra e con la testa rivolta al compagno. L’intera sequenza richiama evidentemente tematiche connesse con il simposio dionisiaco.
In almeno tre delle quattro scene la caratterizzazione delle figure è tale che non solo la critica ha potuto attribuire i rilievi all’ambito “neoattico” dell’arte augustea, ma ha anche avanzato l’ipotesi che si tratti di un’unica mano d’artista. I tratti peculiari delle figure di questi rilievi permetterebbero inoltre di leggere le sequenze su un piano narrativo, come appartenenti ad un’unica storia: dai preliminari dell’abbraccio, al bacio, a un momento di intimità. L’unica scena che non rientrerebbe nella sequenza è quella con il trigonum, che in effetti è anche stilisticamente diversa, attribuibile cioè ad un altro autore. Se si accetta l’ipotesi secondo cui l’ara in origine costituiva il basamento di una statua di Dioniso, la faccia non riconducibile all’autore dei tre rilievi principali, poteva essere non decorata perché appoggiata ad una parete. Solo con il mutamento della destinazione dell’ara stessa, si dovette provvedere ad inserire la nuova scena.
Anche in conseguenza della lunga esposizione al pubblico, il marmo di Luni appariva sofferente e degradato, con erosione delle superfici e perdita della finitura superficiale. La penetrazione in profondità dei depositi pulverulenti aveva conferito alla pietra una colorazione grigiastra e opaca. Interventi precedenti si sono rivelati erronei o dannosi, causando la caduta o colatura di sostanze acide. Pur con esiti felici e positivi, le tecniche impiegate per la pulizia non hanno potuto rimuovere completamente i depositi grigi ormai radicatisi in profondità, mentre è stato possibile alleggerire il cromatismo delle macchie dovute agli ossidi di ferro.
Redazione Restituzioni