L’Allegoria della Felicità pubblica testimonia l’esistenza di un edificio importante, dotato di un grande salone nella cui volta si dispiegava la pittura. Si tratta del non più esistente palazzo Ajroldi, una delle dimore presenti a Palermo della nobile casata, sito in via del Teatro Santa Cecilia. Tale zona, di antica tradizione medievale legata ai commerci, fu interessata, a partire dalla seconda metà del Seicento da un fervido rinnovamento edilizio che vide chiese e palazzi sorgere o trasformarsi in forme architettoniche tardobarocche e rococò. Alla fine del XVII secolo fu edificato anche il teatro che diede nome alla strada, come simbolo di adeguamento al tenore di una capitale europea.
L’opera, sopravvissuta alla demolizione dell’edificio, richiama un momento storico ben preciso e diffuso nell’Italia postunitaria, quando l’urbanistica si adeguò alle esigenze della modernità che richiedeva la creazione di nuovi assi viari ampi, retti, per accogliere i grandi volumi di traffico crescente di mezzi. A questa esigenza furono sacrificate intere porzioni dei centri storici, a Palermo presero avvio i grandi lavori per la realizzazione di via Roma, con cadenzata successione nel tempo delle demolizioni per l’avanzamento dei “tronchi” della strada. I lavori si protrassero fino agli anni venti, mentre la Soprintendenza salvava le opere ritenute di particolare pregio artistico. Dalla demolizione di palazzo Ajroldi alla Misericordia fu salvato l’affresco della volta del salone: ridotta in cinque grandi porzioni di pittura aderente al massetto retrostante, l’opera fu messa in sicurezza nei depositi del museo, ma la sua esistenza fu trascurata fino a dimenticare che si fosse salvata, seppure fosse tramandata la sua memoria fra le opere più significative dell’arte di Vito D’Anna.
Vito D’Anna, “accademico di merito” di San Luca e conte palatino, fu pittore acclamato nel Settecento siciliano: la sua arte di frescante era particolarmente apprezzata dall’aristocrazia. Miti, trionfi, virtù e allegorie furono i temi prescelti dall’artista, reduce dal soggiorno formativo romano. Al suo rientro a Palermo, nel 1751, ebbe modo di maturare un’offerta rinnovata, che dal barocco magniloquente e monumentale virava verso il rococò, leggiadro e aereo nelle composizioni, forme e colori.
In tale percorso, maturato anche sulla rimeditazione dell’importante e cospicua eredità locale dell’opera di Guglielmo Borremans, rientra l’affresco per la volta di palazzo Ajroldi, firmato e datato 1758 e tradizionalmente interpretato come Allegoria dell’Abbondanza. Una figura femminile panneggiata di blu e giallo assisa sulle nubi innalza con una mano il caduceo e con l’altra volge verso il basso una cornucopia che sparge il suo contenuto di messi al di sotto, raccolte da un giovane ignudo. Sempre nella parte alta della composizione si affianca alla figura femminile un elegante paggio che mostra uno scudo riflettente retto da un giovane alato.
Approfondendo ciascuno degli elementi appena descritti, è possibile centrare meglio il tema e riconoscere nell’opera la rappresentazione del concetto di “Felicità pubblica”, già individuato e ora collegato con sicurezza a tale allegoria così come descritta nelle fonti e repertori iconologici.
Il soggetto della “Felicità pubblica” fu di grande attualità al tempo del nostro affresco, a partire dal saggio di Ludovico Antonio Muratori, Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni Principi (1749), centrato sul tema delle riforme sociali ed economiche intese come effetti della prosperità comune, la cui ricerca spetta al “principe buono”. In tal senso il grande affresco assurge a manifesto della civiltà del suo tempo e soprattutto del suo contesto.