Il racconto dei Magi, giunti per adorare il Bambino Gesù, si stende lungo un formato orizzontale, efficace per descrivere quell’aspetto di solenne magnificenza propria del tema. Possiamo così soffermarci sulla sontuosità delle vesti rilucenti di colori e sulla preziosità dei doni portati dai Magi.
L’organizzazione spaziale privilegia la centralità del momento di adorazione vera e propria, con il bacio del piede di Gesù Bambino da parte di un re dalla fisionomia troppo caratterizzata per non essere un ritratto. Una colonna, segnata dalla data 1576 in numeri romani, scandisce in due parti la scena: a destra il corteo dei re, animato dalla presenza dei paggi e di diversi animali come i cavalli, il cane e un esotico cammello; dall’altra parte, a sinistra, il più dimesso gruppo dei pastori, segnalato dalla presenza in primo piano del bue, affiancato dal complementare asinello e da un simpatico cagnolino dal pelo rossiccio.
Il dipinto, parte di un ciclo di otto storie dedicate alla Vergine Maria, ha conosciuto una complessa vicenda critica incentrata sulla questione attributiva.
Documentato per la prima volta nel 1664 da Boschini sotto il nome di Alvise del Friso, il dipinto viene poi riferito da Giacomo Barri a Paolo Veronese (1671). Assegnazione che sarà alternamente confermata e contestata nel corso dei secoli, fino all’attuale interpretazione, che in linea di massima tende a riconoscere l’autografia veronesiana dell’opera.
Proveniente dalla Sagrestia vecchia della Scuola di San Fantin, il “telero” è stato più volte spostato all’interno della Scuola stessa. Questo è stato motivo di vari danneggiamenti che hanno a lungo impedito il riconoscimento della qualità artistica dell’opera, ora parzialmente recuperata.
Il restauro ha riguardato unicamente la superficie pittorica, che è stata liberata dalle impurità del tempo.
Malgrado alcune svelature, causate da vecchi interventi, la pellicola cromatica ha ripreso vigore, evidenziando le tonalità originarie dei colori. L’intervento, preceduto da un restauro a cura della Soprintendenza ai Beni artistici di Venezia del 1972, si è rivelato dunque fondamentale per accreditare, anche dal punto di vista dell’approfondimento tecnico, la paternità veronesiana dell’opera.
Redazione Restituzioni