Il dipinto raffigura un frate dell’ordine domenicano che rivolge la sua preghiera alla Vergine e al Bambino benedicente, che appaiono a sinistra circondati da una luce dorata. L’aureola intorno al capo lo identifica chiaramente come un beato o un santo dell’ordine. Sul tavolo al suo fianco è posato un libro, un rosario, come indica la scritta che si legge sul margine inferiore del volume.
La tela è giunta in Accademia Carrara nel 1866 insieme a una parte consistente della raccolta di Guglielmo Lochis, depositata dal Comune di Bergamo presso il museo dopo una lunga e complessa transazione. Non si hanno invece informazioni precise sull’arrivo del dipinto in casa Lochis. La prima attestazione sicura risale al 1846, quando la tela è menzionata nel secondo catalogo della collezione (1846). Con l’arrivo in museo e finché l’iscrizione con la firma fu visibile, essa fu una presenza costante negli allestimenti dell’Accademia Carrara. Con il riordino di Corrado Ricci (1912) il dipinto fu relegato nei depositi, dove, salvo un breve momento alla metà degli anni ottanta, è rimasto fino al restauro odierno. L’opera è registrata in maniera discontinua nelle pubblicazioni del museo, specialmente quelle degli ultimi quarant’anni, dove si avanza pure qualche dubbio sul riferimento a Leandro Bassano, mentre non è discussa negli studi monografici dedicati all’artista o negli studi riservati alla sua produzione ritrattistica.
Il recupero critico del dipinto è merito di Alessandra Pattanaro che, inizialmente (2013), ne ha ribadito l’autografia, indicando una datazione tra il 1605 e il 1610. In seguito (2018), nell’ambito di un’indagine sui rapporti tra Leandro e i domenicani, la studiosa ha proposto di identificare la tela in un dipinto raffigurante san Domenico in preghiera dinanzi alla Vergine che alla fine del Settecento era collocato nella sagrestia di San Nicolò a Treviso e che fu venduto all’inizio dell’Ottocento insieme ad altre opere provenienti dai conventi soppressi. La lettura stilistica e di conseguenza la cronologia proposta dalla Pattanaro sono da accogliere senza riserve, a maggior ragione dopo che il restauro di Carlotta Beccaria ha riportato alla luce la firma di Leandro, per lungo tempo celata sotto la vernice ossidata e ingiallita che offuscava la pellicola pittorica. Va confermato non solo il termine post quem dell’aprile 1596, quando l’artista riceve il titolo di cavaliere menzionato nell’iscrizione, ma soprattutto il sempre più concreto collegamento del dipinto con quello già nella sagrestia della chiesa conventuale dei domenicani a Treviso. L’intervento, inoltre, ha restituito piena leggibilità all’opera, che ora rivela chiaramente quella condotta per stesure filamentose che contraddistingue la produzione dell’artista a partire dai primi anni del Seicento, nel segno di una rinnovata sensibilità naturalistica.
La tela dell’Accademia Carrara, con la sua scrittura asciutta e senza fronzoli, non solo è l’ennesima prova della vocazione di Leandro al ritratto, di cui tanto discorrono le fonti antiche a partire da Ridolfi, ma è anche testimonianza preziosa di una stagione della ritrattistica dell’artista forse meno indagata di quella precedente degli anni ottanta e novanta del Cinquecento, i cui esiti più interessanti e notevoli si rintracciano proprio in una serie di intense e realistiche immagini di esponenti dell’ordine di san Domenico.