Il restauro delle tele raffiguranti Santa Cecilia e Sant’Apollonia ha reso possibile la riemersione di forme, colori, brani di vivissima pittura da un grumo indistinto di canapa, terriccio e larve.
I dipinti facevano parte di un ciclo pittorico di nove tele raffiguranti Sante francescane e Sante martiri che decoravano la cantoria della chiesa di San Francesco a Tolve, in Lucania. Il ciclo fu trafugato nel 1996 e ritrovato nel 1998 interrato in un bosco nei pressi del paese. Le tele erano state tagliate, piegate e compresse l’una sull’altra.
Il complesso è stranamente ignorato dalle esplorazioni sui beni artistici del territorio fino alla menzione di Anna Grelle nel suo saggio ricognitivo dell’arte lucana (2001), in cui la studiosa lo attribuisce a Lorenzo De Caro.
Al centro della balaustra campeggiava Santa Cecilia tra Sant’Apollonia e Santa Barbara, sulle due ali si distribuivano le altre sante. Colpisce la vitalità e l’acume psicologico di queste eroine moderne, che si fa fatica a credere sante di tempi lontani. Torna in mente quanto scrisse Spinosa a proposito di De Caro delineandone la figura di petit maître del Settecento napoletano che “riuscì ad avvedersi della lezione di Gaspare Traversi da cui trasse l’attenta analisi del ‘vero psicologico’”. Il gesto naturale con cui Apollonia mostra il suo attributo iconografico, come se fosse un gioiello e non un dente brutalmente cavato dai suoi aguzzini, dissimula il martirio con una leggerezza che pone la fanciulla tra le raffinate figure della pittura mitteleuropea di stampo rocaille della seconda metà del secolo. Una “via diversa per accedere al Rococò” definì Bologna la sua eccentrica ricerca che, partendo dal Solimena neobarocco degli anni trenta, compie un balzo oltre l’accademia in cui si irrigidiva la cerchia solimenesca, puntando piuttosto al naturalismo di Traversi per approdare a un estroso barocchetto. Tra naturalismo e tipizzazione si muovono queste figure femminili spinte in avanti da un fondo carico d’ombra grazie a una fonte luminosa che le investe di toni ora lividi ora profondi. L’artista sfodera tutta la sua sapienza di scaltrito luminista attingendo alla grande tradizione pittoricista del barocco napoletano. Sant’Apollonia è la discendente mondana delle preziose sante di Cavallino ma non esisterebbe senza i baluginii smaglianti di colore solimeneschi. Il restauro delle tele ha restituito la serrata sintassi di luci e ombre colorate, la definizione timbrica delle tinte fredde, i profili affilati su cui si rapprendono filamenti luminosi. La serrata resa plastica delle forme di Sant’Apollonia si scioglie in un lievitare di materie pittoriche leggere intorno al volto di Santa Cecilia, un ritratto di rara intensità in cui è evidente l’eco delle ricerche naturalistiche traversiane immerso in un contesto pittorico libero e crepitante. Questi elementi consentono di collocare i dipinti lucani nel quinto decennio del Settecento, negli anni successivi alla realizzazione delle tele della cappella della Pietà annessa al collegio Landriani di Portici, quando lo stile del pittore si volge decisamente verso un fluire vivace di forme associato a una presa diretta del dato reale ma permane un rigore devozionale neomanierista, irrequieto e anticlassico, lontano però dagli slanci fantastici del decennio successivo.
Agli inizi del XVIII secolo, Faustina Pignatelli, moglie di Francesco Carafa, ottenne il ducato di Tolve. Piace pensare a chi scrive che la nobildonna, scienziata ammirata da Voltaire, donna colta e indipendente, possa aver avuto un ruolo nella scelta dell’artista, sperimentatore dagli interessi illuministi, e nel programma iconografico del ciclo della cantoria, così innovativo e inusuale in un contesto provinciale e conservatore. Una galleria di figure femminili padrone del proprio destino, necessarie premesse creative del capolavoro rococò di De Caro, l’irriverente Giuditta della collezione Molinari-Pradelli di Bergamo