La composizione dell’immagine, semplice e regolare, è incentrata sulla Vergine Maria che regge il Bambino sulle ginocchia, assisa su un trono di roccia, con espressione ieratica e concentrata.
Il gradino erboso, lo schienale e il blocco rupestre la separano dalle coppie di santi che si dispongono a semicerchio, riconoscibili grazie agli attributi iconografici: a sinistra Marta tiene al guinzaglio il malefico drago catturato nei boschi di Tarascona, reggendo con la destra un aspersorio; accanto, confuso a volte con Onofrio o Giobbe, il fratello Lazzaro, la cui iconografia è stata fusa con quella del Lazzaro mendicante citato nella parabola del ricco Epulone: lo vediamo infatti quasi del tutto nudo, con il bastone e il cane intento a leccargli le piaghe, diventando così il protettore dei lebbrosi e dei lazzaretti. Dall’altra parte Rocco, con il bastone del pellegrino, ostenta la propria ferita accanto ad Antonio da Padova con il saio della povertà e il giglio della santità.
Sullo sfondo il paesaggio si perde nel chiarore azzurro del cielo, illuminato da una luce tersa che cade sugli spigoli delle case, dei tetti, dei campanili e delle torri, marcando il profilo delle montagne in lontananza.
L’opera è stata probabilmente realizzata per i Minori Osservanti di San Rocco a Brescia e passata a privati dopo la demolizione dell’edificio nel 1516. Non ci sono infatti testimonianze antecedenti la Guida di Odorici del 1853, che vede il dipinto nell’Oratorio femminile di San Rocco, annesso a San Giovanni Evangelista. Una conferma della provenienza dalla chiesa francescana ci viene dalla presenza del santo titolare; ma anche dal colore grigio del saio di Antonio, dello stesso colore del primo abito dei frati Minori.
Assegnata inizialmente a Callisto Piazza da Lodi, quindi a Francesco Prata da Caravaggio, l’opera è stata infine attribuita a Romanino da Giorgio Nicodemi (1925): paternità che da allora è stata ampiamente condivisa dalla critica. Per quanto riguarda la cronologia, invece, è stata ipotizzata la fine del primo decennio del Cinquecento, sulla base dell’analisi stilistica che ha fatto emergere la ricezione di Altobello Melone, visibile nella resa espressionistica dei volti.
Prima del restauro l’opera versava in pessimo stato conservativo, a causa di diversi fattori: l’attacco di insetti xilofagi sul supporto ligneo; l’incurvamento dovuto alla parchettatura applicata nel 1939; il forte assottigliamento della tavola.
Dopo una prima fase di consolidamento del legno e l’opportuno trattamento antitarlo, è stato necessario procedere alla rimozione della parchettatura, sostituita da una griglia in carbonio, con specifiche caratteristiche di leggerezza e flessibilità. Altri danni riguardavano la superficie pittorica, incupita da uno spesso strato di vernici alterate e ritocchi vari, che sono stati rimossi. Successivamente sono state eliminate le vecchie stuccature, reintegrate le lacune più profonde con nuove stuccature ed infine effettuata la fase del ritocco, eseguito a tratteggio. Il restauro è stato completato con la stesura di un nuovo film di vernice protettiva, che ci consente di leggere più correttamente il testo figurativo del giovane Romanino.
Redazione Restituzioni