Strutturata secondo un’impostazione piramidale, la pala è legata a schemi stilistici tradizionali, di memoria arcaizzante. Il protagonista, sant’Antonino – arcivescovo fiorentino, campione di virtù teologiche e azioni caritatevoli – appare sovradimensionato rispetto alla folla dei questuanti, compressa in primo piano. Il santo sovrasta anche i due chierici posti nel piano intermedio scandito dal parapetto marmoreo, nonché le autorevoli insegne del potere religioso (mitra e pastorale, allusivi alla carica arcivescovile).
Dal basso partono le richieste (mani tese, lettere di petizione) che vengono mediate dai due chierici, rappresentanti del mondo ecclesiastico, verso il santo seduto su un poderoso seggio, intento ad ascoltare i suggerimenti di due angeli. La scena riprende dunque una dinamica di ordine gerarchico, interpretata con grande spirito realistico, grazie anche alle indiscusse capacità ritrattistiche di Lotto, artista molto sensibile alla qualità del dettaglio.
Destinata a decorare il transetto della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (San Zanipolo) a Venezia, La carità di sant’Antonino è un’opera che segna il culmine della carriera di Lorenzo Lotto.
Commissionata forse già nel 1525-26 dai domenicani di San Zanipolo, in concomitanza con la canonizzazione del santo (1523), la pala fu portata a termine solo nel 1542, per 90 ducati al posto dei 125 pattuiti. La tempistica non è casuale, vista la coincidenza con un altro importante anniversario: la fondazione della Società dei Buonamini di San Martino, sorta a Firenze nel 1442 per volere dello stesso Antonino. La pia associazione era incaricata della cura dei “poveri vergognosi”: categoria specifica di poveri, cui allude anche Lotto nella dama con la veletta in primo piano, costituita da personaggi di alta condizione sociale caduti in miseria.
L’immagine si schiera così a sostegno di una nuova posizione ideologica sorta di fronte al dilagare della povertà, in favore di una distribuzione locale delle elemosine, gestita dalle parrocchie: la carità non si traduce più in un atto spontaneo e trasversale, ma in un fenomeno regolato in termini istituzionali.
La storia conservativa dell’opera è ben documentata, segno del rispetto di cui la pala ha storicamente goduto. Non altrettanto soddisfacenti sono stati, però, i risultati dei vari interventi di restauro succedutisi nel tempo: dalle integrazioni ottocentesche − inefficaci, secondo Moschini, nella restituzione del “fulgore delle tinte” −, fino al restauro di primo Novecento di Bonomi, mirato a rimuovere incrostazioni di cera, muffa e vernici ossidate, risultato influente nell’alterazione del testo.
La scarsa qualità dei restauri è stata confermata dalle ricognizioni degli anni Ottanta per essere finalmente superata dal restauro di Nonfarmale (1984-85). La tenuta di quest’ultimo ha reso sufficiente, per una rinnovata capacità di lettura del testo figurativo, una semplice manutenzione limitata alla riadesione di alcuni sollevamenti della materia pittorica, alla rimozione delle alterazioni più evidenti, alla stuccatura di alcune lacune e a qualche integrazione di colore. E’ stato quindi possibile recuperare l’originaria limpidezza del colore, rendendo giustizia alla qualità della pittura lottesca, ammirata anche dal grande “colorista” Tiziano.
Redazione Restituzioni