La grande tavola, realizzata su cinque assi orizzontali, decurtata in alto e anche sui lati, è uno dei pezzi più enigmatici della produzione ferrarese del Rinascimento. L’attribuzione iniziale a Mantegna e poi allo Squarcione viene corretta in direzione ferrarese e trova una svolta con l’ipotesi di Venturi (1887, 1888) che, incrociando le fonti documentarie, ne propone la paternità di Baldassarre d’Este nel 1502 per le suore canonichesse lateranensi di Santa Maria delle Grazie a Ferrara. Ciò permetterebbe di dare un volto più compiuto all’artista noto ampiamente dai documenti. Nonostante il parere contrario di Longhi (1934, 1955), che tenta di risolvere i tratti di eccentricità mettendo in campo un artista straniero attivo a Ferrara, l’ipotesi trova ancora fortuna in tempi abbastanza recenti nell’accurata disamina di De Marchi (1992), che ha il merito di individuare la stessa mano in una Madonna con il Bambino conservata in collezione privata tedesca. Si occupa del dipinto in varie occasioni Daniele Benati (1982, 1987, 1990, 1998, 2005), non convinto della possibilità di confrontare le poche testimonianze pittoriche di Baldassarre d’Este, frammentarie o molto restaurate, con lo stile potentemente espressivo di questo maestro, che riconosce anche in un tondo con Dio Padre benedicente (Gazzada, collezione Cagnola). Quanto ai dati di stile la critica, a partire da Salmi, insiste molto sulla dipendenza da Ercole de’ Roberti, in particolare dai perduti Funerali della Vergine nella cappella Garganelli in San Pietro a Bologna, come a un modello declinato però con “un’enfasi scenica” forse memore di Tura e comunque con l’intento di maggiore espressività emotiva, mentre si notano attenzioni ottiche di stampo quasi fiammingo.
I dodici apostoli si affollano intorno al cataletto ove giace la Madonna appena morta, impegnati in una celebrazione liturgica, sullo sfondo di un cielo dorato, abbagliante di luce, che allude al momento dell’incontro con Cristo; molti dei personaggi sono identificabili grazie ai testi apocrifi che narrano l’episodio, compresi i due angeli Michele e Gabriele in primo piano. Dal punto di vista dello stile, gli elementi di cultura ferrarese (che rimandano soprattutto a Tura e Cossa) non paiono risolvere in toto la complessità del linguaggio del maestro, che mostra una componente padovano-squarcionesca, forse legata alla sua formazione giovanile (soprattutto se è da identificare, come si propone prudentemente, con il miniatore noto come “Maestro delle Sette Virtù”), arricchita dalla possibile conoscenza di opere dei Canozi da Lendinara, il tutto declinato con una perspicuità di segno in debito col mondo fiammingo